Di uomini e bestie

Argomento: Romanzo
Autore: Ana Paula Maia
Pubblicazione: 8 marzo 2019

Vi parlo di un libro cui sono già molto affezionata: si tratta di un libro per gli onnivori, i carnivori, i vegetariani, i vegani, i crudisti, gli ecosostenibili, i polemici, i nutrizionisti, i consumatori coscienti e quelli incoscienti...

Ma soprattutto per gli amanti della lettura e della letteratura. Il traduttore, si sa, è innanzitutto un lettore e crea con il testo un legame viscerale, sia per motivi linguistici sia per motivi più squisitamente personali. Associamo, inconsciamente o no, ogni libro che leggiamo, e che in misura maggiore o minore entra a far parte del nostro bagaglio culturale, a una particolare fase della vita, che può essere per esempio l’infanzia o l’adolescenza, la scuola superiore o un esame universitario; a una persona, che sia un amico o un nemico, che ce lo ha consigliato, prestato o regalato; a un aneddoto, uno stato d’animo, un viaggio, un luogo.

Ecco, anche per le traduzioni vale questo concetto di legame affettivo, e forse ancora di più, per il rapporto viscerale che il traduttore instaura con il testo che traduce. De gados e homens di Ana Paula Maia è un romanzo che racconta di bestie e di uomini, di sangue e di morte, di carne e di mattatoi, di un Brasile affamato e miserabile, fatto di cani rabbiosi, acquazzoni, mato, fango e polvere. La sua traduzione dal portoghese, la mia, ha viaggiato nel tempo e nello spazio, visto tanti splendidi luoghi, conosciuto molte belle persone, è cheia de amor, tango, mate, chimarrão, axé e dendê. Ha viaggiato nel tempo, perché il periodo intercorso dalla prima prova di traduzione fino all’uscita del romanzo in libreria ricopre esattamente un anno, da gennaio 2015 al gennaio 2016: un anno è un lasso di tempo importante, specie se considerato in relazione a un percorso personale, professionale e traduttivo; e nello spazio, perché la traduzione ha letteralmente viaggiato con me, dentro il computer che portavo sulle spalle per il Sudamerica: Argentina, Brasile e Uruguay. Del resto, vadiar não é só pra vagabundos: é só levar o computador nas costas, laddove il termine vadiar è molto spesso, per motivi storici, culturali e pragmatici, connotato negativamente. Ho lavorato alla revisione della traduzione di Di uomini e bestie – una delle fasi più delicate – da una postazione immersa nel verde del paesaggio collinare e montuoso di Encantado, una ridente cittadina dell’interior dello stato di Rio Grande do Sul, ospite di un piccolo centro culturale che si chiama Casa7, una preziosa e minuscola realtà che promuove e preserva la cultura gaúcha — e non solo — in quell’angolo di mondo magico e incantato. Le condizioni perfette quindi, ideali, per lavorare a una traduzione e alla revisione di un testo come De gados e homens di Ana Paula Maia, dove i protagonisti sono le bestie, ovvero le vacche, i buoi e le pecore da una parte (della parete), e gli uomini dall’altra: i vaccari, lo storditore Edgar Wilson, lo smembratore Helmuth, il capataz Bronco Gil, uno dei miei preferiti: “Un uomo alto, dalla pelle bruciata dal sole, capelli lisci ed estremamente robusto, che non rinuncia alle bretelle e agli stivali di cuoio, nonostante il gran caldo. È un cacciatore, come per giunta si autodefinisce. Quando una vacca si allontana e scappa, lui è in grado di catturarla rapidamente. Quando un puma o un cinghiale minacciano l’incolumità del bestiame, lui rimane giorno e notte nella foresta a tendergli imboscate. Se un malinteso tra i dipendenti supera il limite della convivenza civile, lui sa come risolverlo. Bronco Gil è un mediatore, un cacciatore, un carnefice e uno dei peggiori soggetti che Edgar Wilson abbia mai conosciuto.” Mi sembrava di vederli quei personaggi. Soprattutto le vacche: tante, tantissime vacche che pascolano mansuete per i campi che si aprono prodighi all’orizzonte.

Mi sembra doveroso puntualizzare che il romanzo è ambientato nell’interior dello Stato di Rio de Janeiro, e quando si parla di Brasile bisogna necessariamente stare attenti a quale Brasile si fa riferimento, se non altro per le stragrandi differenze geografiche di un Paese del Sudamerica la cui superficie corrisponde più o meno a quella europea. Differenze che inevitabilmente portano con sé variazioni di paesaggio, di storia, di tradizioni, di lingua. Tuttavia, il paesaggio di Rio Grande do Sul è molto simile a quello in cui si svolge il romanzo, fosse solo per la quantità di carne consumata e di vacche al pascolo. Mi trovavo nella patria del churrasco, dove o gaúcho si porta a spasso la vacca, anziché il cagnolino. Ero, insomma, totalmente immersa nella lingua e nella cultura di partenza, l’ideale per un traduttore che, si dice sempre, sia anche un mediatore culturale che si muove in quella terra di nessuno, in quella zona franca al confine tra due Paesi, con una lingua e una cultura al di là dell’Oceano, un’altra lingua e un’altra cultura, al di qua. Di fatto lo è.

Il timore — perché c’è sempre almeno un grande timore dietro ogni traduzione — era che un’immersione simile, ideale per cogliere il referente extralinguistico del testo di partenza, nonché tutte le varie accezioni, connotazioni e sfumature semantiche dei vari termini, potesse d’altro canto interferire nella resa in italiano, la lingua d’arrivo. In una parola: il calco, l’incubo del traduttore. In particolare, la più grande difficoltà traduttiva si insinuava nella resa del lessico relativo alla macellazione e al mattatoio. I termini a rischio erano, per esempio: graxaria, la sezione scarti non edibili (pelli, corna, sangue), tradotto con “locale scarti”, perché più gergale rispetto a “sezione sottoprodotti”; triparia, tradotto con “tripperia”, meno tecnico di “reparto lavorazione frattaglie”, ovvero quel reparto dove si puliscono e si preparano per la vendita trippe, zampe e testine provenienti dalla macellazione; esquartejar e derivati, che in portoghese è un termine tecnicamente e generalmente usato per riferirsi alla fase dello smembramento dell’animale in quarti mentre il corrispettivo italiano, oltre ad essere troppo splatter, rievoca inevitabilmente Jack lo Squartatore: in linguaggio tecnico si dice “sezionare una carcassa”, che viene divisa in mezzene o quarti – il famoso quarto di bue; tuttavia ho usato “squartare” in quei passaggi – e non si può dire che nel romanzo manchino, il cui contesto era, in effetti, abbastanza pulp da sostenere l’immagine che ne derivava.

È stata necessaria una documentazione tecnica e approfondita sulle procedure di macellazione dei bovini: dalla stabulazione, la visita d’ispezione ante mortem e il lavaggio della cute, all’abbattimento, che prevede una previa fase di stordimento mediante pistola a proiettile captivo per indurre nell’animale uno stato di incoscienza irreversibile: in Brasile – e nel libro – la fase di stordimento è effettuata con una mazzetta da Edgar Wilson, lo storditore; si passa poi al dissanguamento, fase in cui l’animale, stordito e appeso a testa in giù al paranco, viene sgozzato, ovvero gli vengono recise entrambe le arterie carotidee, per farlo dissanguare dentro degli enormi e fetidi barili, pieni di sangue, vomito ed escrementi; segue la rimozione della pelle; dopodiché il bovino, che ormai è una carcassa, sospeso con delle catene, viene spinto da una carrucola per essere sezionato in mezzene dallo smembratore, che Ana Paula ci presenta come un uomo con gli “occhi da pesce morto”, tradito dalla moglie, “che usa una motosega per rimuovere la testa e dividere la carcassa a metà”: Helmuth, il quale “è bravo a smontare, che si tratti di un motore o di una macchina, di un puma o di una casa, ed è in grado di demolire a martellate persino una parete nel giro di poche ore”. Infine, “dopo essere stati macellati, i quarti vengono spediti alle […] fabbriche di hamburger e distribuiti ad alcune celle frigorifere.” Per la documentazione mi sono avvalsa di glossari, enciclopedie, manuali, tesi di dottorato, normative europee e quant’altro fosse reperibile sulla macellazione e sui macelli. Ma soprattutto, mi sono avvalsa degli amici: perché è altresì noto che i traduttori, seppure rinomati tuttologhi, vantano una serie di amicizie che permettono loro di ovviare ai più grandi problemi traduttivi. Laddove non arriva un glossario, un manuale o un dizionario, arriva l’amico veterinario, esperto di macelli. In tutti i sensi.