È dal 2010, anno della sua fondazione, che la piccola casa editrice romana Atmosphere libri porta avanti il coraggioso progetto di pubblicare opere appartenenti a letterature lontane non solo geograficamente dalla nostra cultura, letterature poco frequentate e poco tradotte in Italia, che trovano uno spazio decisamente esiguo nei cataloghi dei nostri editori. Tra esse, anche quelle dei paesi dell’Est europeo, compresa la ceca.
Nella collana Biblioteca dell’acqua è comparso nella mia traduzione L’altra Praga del popolare autore ceco Michal Ajvaz. Personalità eclettica e poliedrica, Ajvaz ha esordito come scrittore soltanto nel 1989, a quarant’anni, dopo avere esercitato i mestieri più vari. Le sue opere narrative vengono di solito inserite nel filone del realismo magico, con una generalizzazione che rischia di sminuirne il valore, giacché si tratta di un realismo magico tutto particolare, nel quale confluiscono motivi surrealisti e dadaisti, con frequenti incursioni nel campo della letteratura fantastica.
Il libro si apre con una Praga innevata, in un’epoca di cui non si danno coordinate temporali precise, ma sicuramente successiva alla Rivoluzione di velluto. Il protagonista, un giovane uomo senza nome che racconta gli avvenimenti in prima persona, si imbatte casualmente in uno strano volume dalla copertina viola scritto in misteriosi caratteri che non sembrano appartenere a nessuna lingua conosciuta. Nonostante il libro abbia un aspetto inquietante e minaccioso, non resiste alla curiosità e lo compra, e nel tentativo di svelarne il mistero inizia un viaggio affascinante e avventuroso in una Praga complementare a quella reale, situata in spazi che di solito sfuggono all’attenzione. Risucchiato dalla città parallela, l’uomo vive una serie di esperienze che si susseguono come piccoli poemi in prosa anziché come episodi ordinati in una sequenza rigorosamente cronologica. Più che di un romanzo vero e proprio con una trama coerente, si tratta infatti di una storia labirintica, si dipana in mille rivoli e suscita nel lettore le emozioni e le suggestioni più varie, riportandolo alle atmosfere di Borges e Kafka, di Kubin e Meyrink. Alla fine, conscio dell’impossibilità di penetrare i segreti dell’altra città se non trasferendosi, l’uomo salirà su un fantomatico tram verde che collega i due mondi, come il protagonista di Incontri ravvicinati del terzo tipo, quando alla fine del film sale sull’astronave aliena. Perché una della possibili chiavi di lettura del libro è proprio questa: il rapporto dell’uomo con l’ignoto, il suo desiderio di conoscerlo e la sua paura di affrontarlo, ma anche la consapevolezza di sapere guardare oltre la realtà superficiale, oltre ciò che è ovvio. Dice il protagonista: “Il confine del nostro mondo non è lontano, non corre lungo l'orizzonte o negli abissi; balugina pallido a un passo da noi, nel crepuscolo ai bordi del nostro spazio angusto, con la coda dell’occhio intravediamo in continuazione, senza rendercene conto, un altro mondo”.
Ajvaz dà voce alla propria immaginazione lussureggiante attraverso una lingua fluida, liquida, con periodi molto lunghi e complessi nei quali il ricorso all’ipotassi si articola in un numero talmente grande di subordinate che a volte è stato difficile trovare il bandolo della frase e non cedere alla tentazione di facilitarne la lettura dividendola in parti più brevi. Tentazione a cui naturalmente ho resistito, per non distruggere l’inarrestabile flusso narrativo che costituisce l’elemento più originale del libro. Altrettanto difficile è stato ridurre per motivi editoriali il cospicuo numero di note esplicative che avevo inizialmente inserito, relative a luoghi (vie e piazze, locali, monumenti di Praga), personaggi storici e riferimenti alla cultura e al folklore boemi, testi citati, realia intraducibili. La questione delle note meriterebbe una trattazione a parte. Spesso non viste di buon occhio dagli editori, costituiscono a mio parere uno strumento prezioso per ampliare le conoscenze del lettore e fargli cogliere rimandi e nessi altrimenti oscuri. Purché, certo, non appesantiscano troppo il testo, come quella di ben 165 pagine inserita nel 1840 dall’erudito John Hodgson nella sua History of Northumberland e citata da Anthony Grafton nel suo La nota a pie’ di pagina. Una storia curiosa (Sylvestre Bonnard Editore, 2000).
Un problema spinoso è stato la resa italiana dei toponimi presenti nel testo, davvero numerosi nelle descrizioni dei vagabondaggi del protagonista. I toponimi rappresentano un elemento di grande importanza, contengono informazioni legate alla storia e alla cultura della città, forniscono il contesto vivo nel quale si sviluppa la narrazione. Quelli di Praga hanno spesso un significato ben preciso, legato alle caratteristiche del luogo. Per esempio via Mostecká, che va dal Ponte Carlo alla piazza di Malá Strana, significa letteralmente “via del ponte”. Mi sono chiesta a lungo se lasciare i nomi della forma originale o se tradurli. In casi del genere, nelle tante versioni italiane di opere ceche da me consultate ho trovato entrambi le soluzioni. Alla fine ho scelto di lasciare i toponimi nella forma ceca, anche per rendere le sonorità della lingua originale, e di tradurre le denominazioni urbanistiche generiche (via, piazza, lungofiume, etc.) che li accompagnano. L’unica eccezione è costituita da piazza san Venceslao, comunemente nota in Italia con questo nome. Quanto ai nomi di strutture architettoniche come ponti e chiese, ho deciso di tradurli per una maggiore leggibilità. I nomi dei locali (caffè, ristoranti, vinerie) sono stati lasciati in originale con la traduzione in nota. Ho spiegato i criteri adottati in una breve nota collocata alla fine del libro nella quale, per dare al lettore la possibilità di seguire sulla carta le peregrinazioni del protagonista, ho inserito anche l’elenco dei toponimi come compaiono nella traduzione con a fianco la versione originale.