Scritto in gran parte a Roma da una bolzanina di madrelingua tedesca trapiantata in Austria e che conosce bene la nostra lingua, poi tradotto da una trentina trasferita in Austria, Sassi vivi – romanzo d’esordio di Anna Rottensteiner – è stato oggetto di un laboratorio di traduzione letteraria all’Università di Innsbruck al quale hanno partecipato studenti italiani Erasmus, austriaci e altoatesini. Il tutto sembra dimostrare quanto il confine sia soltanto un passaggio su cui i libri, e quindi le traduzioni, camminano per portare dall’altra parte le storie che vi sono scritte.
Di confini, i protagonisti Dora e Franz, ne attraversano molti, fino ad arrivare in Finlandia. La Seconda guerra mondiale è appena terminata, le dittature sono cadute, lasciando macerie e tragedie dolorose da elaborare. La ricognizione del passato, quello personale di Dora, ma anche quello dell’Italia fascista e del Sudtirolo delle Opzioni comincia appena molto tempo dopo, in un luogo lontano, al di fuori delle topografie della loro giovinezza. In Finlandia, terra di acqua e di boschi, di sassi e di isole, Franz e Dora ricostruiscono a fatica la loro vita, imparano la lingua, nel corso degli anni conquistano qualcosa di molto simile a un’apparente serenità e diventano figure esemplari di una generazione con addosso il peso della storia.
Di storia ce n’è in effetti molta in queste pagine, compattata e filtrata dalle vicende dei protagonisti: momenti cruciali che hanno segnato la vita della gente di lingua tedesca e la gente di lingua italiana in un territorio in-between come l’Alto Adige, in un arco di tempo tra i primi anni del fascismo e gli anni Ottanta, incluse le Opzioni del fatale 1939 per i sudtirolesi e il 1945 per gli italiani.
Nell’alternarsi tra presente e passato, l’intreccio narrativo trova un corrispondente intreccio topografico: dai boschi e dai laghi della Finlandia si passa a sud, alla grande bellezza di Roma col suo lussureggiante giardino botanico, al cimitero del Verano, ai vicoli di Trastevere, al parco e alle statue di Villa Sciarra, e poi di nuovo a nord, sul lago di Garda, teatro degli ultimi giorni della dittatura nelle ville liberty di Gardone e Salò.
Al centro di questa topografia ramificata due protagonisti assai diversi nella fisionomia e nel carattere (scura e ardente Dora, un timido biondino lui), bipolari come i mondi che abitano, le lingue che parlano. La loro storia si staglia sullo sfondo di un altro amore difficile, quello tra il Duce e Clara Petacci. Nel romanzo compaiono, appena tratteggiate, alcune figure femminili da cui Dora costruisce la sua identità di adolescente, come Cristina, regina di Svezia e amica di Cartesio; Greta Garbo, interprete del film, e Edda Ciano. Donne risolute, modelli per Dora e per l’autrice che tra le pieghe del sentimento, narra una storia d’amore ma anche il rapporto tra donne e potere.
I sassi - leitmotiv narrativo - hanno accompagnato anche il mio lavoro di traduzione. L’immagine tratta dal libro, quella delle sculture di sassi, è una metafora da aggiungere alle tante con cui si è cercato di descrivere la traduzione. Mettere i sassi al posto giusto, incastrarli, toglierli, rimetterli, spostarli, se ne sposti uno crolla tutto e devi ricominciare in un altro modo – in breve cercare lo stato di equilibrio, di corrispondenza tra segni, immagini e suoni perché di queste tre componenti è fatta la scrittura letteraria. E, poi, l’insoddisfazione di Dora, dell’artista che “distrugge” perché, dice, “non è così, era di più, era molto di più”.
Anche il traduttore sente spesso questa “mancanza” e teme di non arrivare alla meta, procede per avvicinamenti progressivi, ma senza alcuna certezza di costruire qualcosa che corrisponda all’originale voluto dallo scrittore e a quello “ideale”, che sta nella sua testa o nel suo cuore. O meglio, la certezza a volte c’è: in quei momenti le due lingue si piegano docilmente l’una verso l’altra, si incontrano e si compenetrano. E allora è come veleggiare col vento giusto, senza sforzo. In ogni caso il principio è sempre quello che il libro tradotto è un originale, ma non sarà mai l’originale. Mi piace infine ricordare l’idea dell’ospitalità (non mia peraltro, ma di Antoine Berman, affascinante studioso della traduzione), ossia della lingua in cui si traduce come lingua di accoglienza che non prevarica, ma lascia “essere”, abitare dentro di sé la lingua straniera. Per questo anche nella versione italiana alcuni termini di forte connotazione sono stati mantenuti in tedesco, proprio per caratterizzare ulteriormente una storia scaturita da un territorio mistilingue come l’Alto Adige.