Esther Kreitman Singer incarna una delle ingiustizie più clamorose che si siano mai viste nel mondo letterario. Sorella maggiore di un premio Nobel, sorella maggiore di un altro scrittore che se non fosse morto prematuramente a 51 anni avrebbe vinto probabilmente un premio Nobel, fu ignorata in vita e dai posteri (molto a lungo), nonostante la sorte le avesse dato in dote un talento non inferiore a quello dei fratelli.
Affascinanti, brillanti, amati dalle donne i fratelli. Lei tristissima, malata di nervi e malata nel corpo, emarginata, costretta a una vita povera d'amore e piena di stenti, deprivata degli stimoli intellettuali cui avrebbe tanto ambito, e fornita di una sensibilità personale e sociale che rendeva tutto ancora più doloroso.
E così, traducendo Esther Kreitman Singer (dall'inglese, e non dall'yiddish originario) mi è parso di ristabilire, con molti decenni di ritardo, un pizzico di giustizia. Anche se questa possibilità di leggere Esther, diciamolo chiaramente, ci è stata data grazie al grande successo che in questi ultimi anni in Italia ha riscosso il secondogenito di quella famiglia, ovvero Israel Joshua, minore di Esther di due anni, e da lei molto amato (ahinoi non ricambiata come meritava: nel momento del bisogno non le fu di alcun aiuto). Ma pazienza: ringraziamo il cielo e il pubblico che hanno permesso di non lasciar morire nel dimenticatoio la voce forte, ironica, amara di una donna che in vita non riuscì a farsi sentire. O per meglio dire fu zittita: quando Esther partì per andare in sposa a un giovanotto che non aveva mai visto prima, la madre distrusse tutti i suoi scritti, con la scusa che avrebbero potuto essere scambiati per materiale sovversivo.
È bella la voce di Esther come la sentiamo in L'uomo che vendeva diamanti, un romanzo che unisce le esperienze di una vita, e che fu pubblicato a Londra nel 1944 con il titolo di Brilyantn. È ambientato ad Anversa, dove la giovane Esther andò ad abitare dopo il matrimonio, sposa di un tagliatore di diamanti povero e debole e inetto e succube di un padre avido e prepotente che assomiglia al protagonista della storia, ovvero Gedaliah Berman; poi la scena si sposta a Londra, sotto l'incalzare della Prima guerra mondiale – e Londra diventò in effetti la patria dell'infelice Esther, che trascorse la seconda parte della sua vita tra deliri di persecuzione e crisi epilettiche. E tra Londra e Anversa irrompe il ricordo dello shtetl polacco, con la figura fragile e tenera del padre di Gedaliah, che venuto in visita al figlio si trova proiettato in agi sconosciuti, e in un ebraismo moderno che gli fa un po' orrore, anche se l'orrore è temperato dall'affetto.
La storia racconta l'ascesa e la caduta di Gedaliah, che è un tiranno, un furbacchione, cinico e disinvolto ma non privo di debolezze e tenerezze che tutto sommato ce lo rendono se non simpatico, almeno tollerabile. La caduta non è quella del commercio dei diamanti, ma quella della famiglia che si disgrega, prendendo strade impreviste.
Esther Kreitman da ragazza era stata conquistata dalle idee socialiste, in modo che diremmo naturale: il suo animo delicato e aperto alle sofferenze proprie e altrui vedeva nel socialismo un modo per porre fine alle miseria e alle ingiustizie. E queste idee politiche lasciarono il segno nei suoi scritti, perché al pari del fratello Israel Joshua le storie dei singoli sono incastonate in un affresco più grande: la guerra, la fuga dal Belgio, la vita dei profughi ricchi a Londra, la vita dei poveri, l'intraprendenza del proletariato ebraico nell'Inghilterra che lavorava freneticamente per vestire e armare i suoi soldati.
Questo è in effetti un romanzo più maturo e lucido e meno sofferente, meno tormentato di Der Shedam Tanz, fortemente autobiografico, che fu pubblicato a Varsavia nel 1936 e uscì qualche anno fa in Italia con il titolo di Debora – da me ritradotto e uscito come La Danza dei Demoni, recuperando così il titolo originario. Forse a qualcuno parrà balzana l'idea di tradurre due romanzi in ordine rovesciato: ma la tentazione dell'inedito è stata troppo forte.