Boule de suif è una novella perfetta, un gioiellino, di quelli da indossare ogni giorno e non solo nelle grandi occasioni. È un classico di sorprendente attualità che non smette di rammentare – con garbo, ironia e arguzia – quanto la natura umana sia incline all’opportunismo e facile all’ipocrisia. E anche che il famoso detto “il fine giustifica i mezzi”, benché condannato, continui a dilagare celandosi sotto forme sempre nuove.
Fui sedotto da Boule de suif per la prima volta, anni fa, all’università. Il classico colpo di fulmine. La passione per la traduzione mi ha ricondotto a lei. Personalmente penso al processo traduttivo come a una pratica amorosa. Si ama il testo nella sua unicità, con i suoi pregi e i suoi difetti. È un processo di umile intermediazione: si impara a conoscere e trasformare l’altro accogliendolo e rispettandolo, senza volerlo cambiare ma cercando di renderlo libero anche in un contesto linguistico differente. E come in ogni storia d’amore bisogna anche essere consapevoli che non sempre è possibile accogliere “tutto” del testo fonte e non sempre si è in grado di liberarlo completamente nella lingua d’arrivo.
Il linguaggio di questa novella è immediato e apparentemente semplice e levigato, ma ci si accorge in fretta della complessità soggiacente non appena si inizia a tradurre. Le varietà di registri linguistici (i personaggi sono un campione rappresentativo dei ceti dell’epoca) e stilistici (comico, ironico, sarcastico, drammatico), i giochi di parole, le canzonature sui modi di pronunciare e via di questo passo. Una difficoltà su tutte: il titolo che mi ha posto di fronte a un’importante scelta traduttiva.
Il nome della protagonista scopriamo a un certo punto che è Élisabeth Rousset, Maupassant ha voluto però consegnarcela fin da subito con il suo nomignolo, Boule de suif.
Le Robert, Dizionario storico della lingua francese, alla voce suif riporta: «Grasso di animali erbivori, specialmente fusa, […] Come peggiorativo la parola designa (1867) il grasso umano, in particolare nell’espressione boule de suif “persona rotonda e grassa” (titolo di una novella di Maupassant)». Il testo nasce per la raccolta di racconti “Les Soirées de Médan”, sulla guerra franco-prussiana, sotto la direzione di Zola. Il titolo di Maupassant, di primo acchito, potrebbe far presagire un racconto bellico crudo e realista. Dopo le prime pagine, tuttavia, si constata tutt’altro: colei che l’autore chiama boule de suif – termine peggiorativo – è proprio la protagonista. In realtà la descrive e ne fa un ritratto delizioso, di un personaggio nobile, un’eroina fiera e combattiva, l’unico carattere positivo nella vicenda che attiri le simpatie del lettore. La stessa tecnica si trova in molti altri racconti dell’autore, come ad esempio in Mademoiselle Fifi, in senso inverso questa volta, altro racconto-chicca dove l’aspettativa creata dal titolo viene totalmente capovolta nel testo.
Analizziamo linguisticamente il titolo e consideriamo dapprima il sostantivo boule: è un termine foneticamente gentile e delicato ¬– molto più del nostro primo traducente “palla” –, polisemico e semanticamente attinente alla sfericità e alle forme tondeggianti (per inciso, in francese c’è distinzione tra boule e balle). A ben vedere la protagonista è sì una cortigiana rotondetta, florida, ma è anche un “bolo” di passione, coraggio, determinazione, tenerezza, sensualità oltre che d’ingenuità. E in fondo anche la storia stessa è una vicenda che man mano monta e si gonfia, come una “bolla” che giunta al suo massimo poi s’affloscia.
Veniamo ora a suif: il sego, o sevo che dir si voglia. È un termine oggidì uscito dall’uso comune che poco dice al lettore italiano moderno. La ricchezza semantica di suif, nel 1880 quando il testo fu scritto, stava nel suo utilizzo quotidiano e trasversale ai ceti: una sostanza grassa di origine animale, certo non nobile se non addirittura di scarto, dai tanti impieghi, utile e duttile su più fronti, come alimento (Boule dà in pasto le sue provviste e poi anche sé stessa all’ufficiale prussiano), come lubrificante (è lei che tira fuori d’impaccio i compagni di viaggio per ben due volte) e addirittura metonimico per “candela di sego” (non è forse Boule che fa luce sull’ipocrisia borghese?).
Potremmo infine aggiungere che la forma stessa del racconto ricorda una boule: il cuore della narrazione – il viaggio in mezzo alla neve per raggiungere Dieppe – sembra circoscritto all’interno di una specie di boule de neige (peraltro presentate per la prima volta all’Expo Universale di Parigi nel 1878). Come se Maupassant abbia voluto consegnarci una storia in miniatura da leggere, maneggiare, osservare da più punti di vista proprio come dentro a una sfera di cristallo.
E così, al termine della lettura, cogliamo appieno un titolo che si ridefinisce arricchendosi; il significato peggiorativo d’origine si ribalta grazie ai vari piani di senso con cui, chiaramente, l’autore ha giocato. Per dirla con Jakobson, Maupassant riscatta, attraverso la funzione poetica, l’immagine di Boule che da prostituta sempliciotta, bassa e grassa si eleva a eroina, martire e vittima dell’ipocrisia borghese in una splendida opera d’arte che porta il suo nome. Boule, allora, non è più solo la protagonista ma è il racconto stesso.
Davanti a tanto senso procedere con un letterale “Palla di sego”, “Bolla di sevo”, o un banale “Palla di lardo”? Sì anche, ma mi sembrava comunque insufficiente. Ho preferito dunque lasciare Boule de suif, come atto d’amore per la novella, la sua eroina e l’autore, sdoganando il francese che a mio avviso incuriosisce e seduce con la sua morbida eufonia affettuosa: un armonioso e sensuale tondo di labiale, liquida, dentale, sibilante, e fricativa. Al senso in-compiuto di un titolo, che comunque avrebbe detto poco ai più, ho preferito la densa sonorità dell’originale, magari misteriosa per tanti lettori italiani ma che, più che raccontare significati, li suggerisce con una bella immagine sonora.