Diary

Argomento: Romanzo
Pubblicazione: 24 gennaio 2019

Per un traduttore, poter lavorare consecutivamente a più libri di uno stesso autore costituisce un privilegio abbastanza raro, nonché una discreta fonte di soddisfazioni, in quanto permette di imprimere al proprio lavoro un respiro più ampio, di poter articolare le scelte di traduzione in uno spazio meno angusto di quello del singolo libro, costruendo nel tempo una lingua che risulti riconoscibile per il lettore straniero così come quella dell'autore lo è per il madrelingua, creando una continuità stilistica e una coerenza interna al complesso dell'opera che aggiungono un elemento di rilievo all'impresa appassionante e impossibile della fedeltà al testo. Avete presente - e mi rivolgo ai colleghi traduttori - quello scarto impercettibile ma fondamentale che, ogni volta che ci si cimenta con un autore nuovo, avviene dopo un numero variabile di pagine tradotte? Il momento in cui all'improvviso qualcosa scatta, tra la pagina scritta e la mente del traduttore si stabilisce una connessione che di razionale ha ben poco, ma che da quel momento in poi permette di procedere nel lavoro come se le parole sgorgassero direttamente dalla nostra mente? Ecco, lavorare a più riprese su uno stesso scrittore significa avere il privilegio di poter protrarre nel tempo questa piacevole sensazione di fluidità e orchestrazione armonica senza essere costretti ogni volta a rompere faticosamente il ghiaccio, e potendosi dedicare alla creazione del paesaggio linguistico senza fastidiosi intoppi. È quello che ho avuto la fortuna di poter fare, da tre anni e quattro libri a questa parte, con Chuck Palahniuk, scrittore atipico tanto nel panorama letterario statunitense che in quello italiano. Atipico in quanto può vantare il merito di aver avvicinato alla lettura fasce di pubblico solitamente poco avvezze alla pagina scritta, creandosi - complici l'iperdinamismo delle sue storie e il successo mondiale della riduzione cinematografica di Fight Club - un autentico seguito di culto, più simile a quello di una popstar che non di uno scrittore. E atipico anche in quanto a stile e organizzazione della materia narrata. Chi ha letto uno dei suoi libri sa infatti quanto parossisticamente vertiginoso possa essere il succedersi di eventi e colpi di scena nei libri di Palahniuk, che nella migliore delle ipotesi sono soliti concludersi con una discreta quantità di finali assemblati come scatole cinesi. Non fa eccezione questo Diary, interessante riflessione sul dolore come origine dell'ispirazione artistica declinata, in forma per l'appunto di diario, attraverso le vicende surreali di un'isola popolata da inquietanti personaggi come sempre ai limiti della psicosi. Anche in questo caso, la vulcanica capacità narrativa di Palahniuk fa il paio con uno stile estremamente scarno, veloce, in cui la concisione sintattica persegue l'icasticità al punto da ricorrere spesso allo slogan, alla frase a effetto. Talvolta, cercando di restituire in italiano le staffilate verbali di Chuck Palahniuk, ho avuto l'impressione di lavorare come un copywriter, un creatore di piccoli congegni linguistici fatti per rimanere incisi a fuoco nella mente ed essere ricordati. Cosa che peraltro si rivela spesso, almeno per il sottoscritto, molto divertente, poiché permette di attingere a risorse e corde linguistiche che personalmente sento molto vicine: il linguaggio informale, quotidiano, i gerghi, l'ironia, la deformazione morfologica. E il gioco si estende il più delle volte al di là delle singole frasi. Solitamente, infatti, il ritmo funambolico della narrazione di Palahniuk si accompagna a marcate scelte retoriche, basate perlopiù sulla ripetizione ciclica di formule che, a seconda della dislocazione, assumono significati differenti e a poco a poco acquisiscono connotazioni sempre più precise. Questo rappresenta una prima sfida per il traduttore, che dev'essere in grado di riconoscere e tenere sotto controllo una quantità di elementi che si ripresentano anche a distanza di molti capitoli, magari con variazioni infinitesimali ma rilevanti ai fini dell'economia del racconto. Una volta riconosciuti tali elementi, si presenta la difficoltà maggiore: quella di escogitarne una versione che si adatti agevolmente e senza forzature a tutti i passaggi in cui ricorre. Devo confessare che, al di là di questo, Chuck Palahniuk non è uno scrittore che presenti enormi difficoltà di traduzione. La sua è una lingua semplice, fresca, che di rado si addentra in accezioni verbali rare o in strutture sintattiche complesse. Quello che richiede quasi sempre, tuttavia, è un corposo lavoro di ricerca sui linguaggi settoriali che di volta in volta sceglie di adottare, spesso presi a prestito dal mondo delle scienze e della medicina (pare che uno dei suoi sogni fosse quello di diventare chirurgo), che gli permettono di rendere credibili le sue frequenti descrizioni del corpo umano inteso come microcosmo meccanico e chimico nel quale ravvisare in piccolo la complessità e la brutalità del reale.