Il suono della mia voce, romanzo di raro impatto emotivo, è espressione trionfale di una sorta di 'crisi della presenza', è la paradossale apoteosi di una soggettività negativa di fronte alla realtà assurda delle cose. La trama, felicemente spartana, è presto detta. Dirigente di successo e figura ironicamente iconica della 'grande abbuffata' degli anni ottanta, Morris Magellan ha tutto ciò che un trentaquattrenne potrebbe desiderare: un buon lavoro, una bella casetta, una famiglia esemplare. Dietro le apparenze di una vita perfetta e invidiabile spicca il dramma di un alcolista cronico, l'insoddisfazione di un uomo qualunque piagato dal mal di vivere. L'alcol non è il problema: è, piuttosto, l'effimero anestetico contro un mondo scuro e tagliente che non cessa di ferire e lacerare. L'alcol, sostanzialmente, diventa un altro strato dello stesso fango che Morris cerca invano di arginare - e non farà che ispessire la grigia, incurabile apatia che soffoca la voglia di vivere. Perché è proprio della vita che il protagonista ha terrore: "Per te, c'è la paura dell'immortalità nella pausa tra una bevuta e l'altra".
La narrazione in seconda persona invita il lettore ad immergersi nel vissuto di Morris, a nuotare senza direzione nel suo amaro oceano di cognac. Eppure il lettore è mero spettatore dinnanzi al quasi-monologo della voce narrante - è la voce della coscienza che si rivolge a Morris, è il tentativo di Jekyll di fare di Hyde il suo interlocutore. Attore tragicomico sul cupo palcoscenico della vita, il protagonista non sente il suono della sua voce e continua a recitare la parte di Morris Magellan nella speranza di convincere anche sé stesso. Per stare a galla, Morris deve fingere con la moglie (primadonna iper-comprensiva e insulsamente santa), con i figli (le sue "accuse" incarnate), con i colleghi (inscenando la nevrosi consumistica ed esistenziale del suo tempo in una geniale commedia dell'assurdo sul packaging dei biscotti). Tuttavia dietro la maschera non c'è né l'attore né il protagonista: solamente il suo implacabile malessere, la sua incapacità di trovare sé stesso. È questo il cuore emblematico del romanzo. Ugualmente significativo è il modo in cui Butlin riprende e sviluppa un Leitmotiv della sua prima produzione poetica e narrativa: il doloroso rapporto-padre figlio, il forzato e futile tentativo di rifugiarsi e riscoprirsi nel grembo materno, lo spirito distruttivo del padre e l'esorcismo come sola possibilità di rinascita. Il tutto è magistralmente pervaso dalla reiterazione di immagini-chiave: il colore bianco; il blu nelle sue varie tonalità; il grigio; il fango; l'acqua in forme e stati diversi (dallo stato liquido dell'oceano a quello solido del pupazzo di neve). Brillante e tenebroso, Il suono della mia voce è un un romanzo il cui fascino non può non inebriare.
Tradurre un romanzo che si ama è certo un grande privilegio. Ma né la passione né la devota umiltà con cui ci si accosta al testo possono eliminare gli ostacoli del processo traduttivo. Una decisione non facile è stata quella di adottare un approccio straniante nell'ambito della punteggiatura, dove l'uso dell'em dash (trattino lungo o lineato lungo) è stato deliberatamente preservato nella traduzione. Nel romanzo di Butlin, l'uso dei puntini di sospensione (e.g. "Io...") è ben distinto dall'uso del lineato lungo (e.g. "Io-"), che indica l'interruzione brusca o improvvisa del discorso - e la durezza dell'interruzione è ulteriormente accentuata dall'assenza di spazio tra la parola e il segno di interpunzione. Sebbene opinabile (dato l'uso non attestato in italiano), la decisione del traduttore è senza dubbio difendibile se si considera il segno di interpunzione come elemento essenziale della partitura del testo originale.
Alcune difficoltà sono sorte nella resa dell'umorismo del protagonista, a volte causticamente sottile, altre quasi pedante (non a caso Morris è spesso l'unico a ridere). I suoi motti di spirito e giochi di parole, di cui il romanzo abbonda, sfruttano svariate polisemie, omografie e omofonie dell'inglese. Banco di prova per il traduttore, l'umorismo non è mai intraducibile, ma richiede una buona dose di creatività e inventiva. Raramente l'estensione semantica dei corrispondenti italiani consente di mantenere i vari livelli di significato delle parole dell'originale. E spesso l'umorismo inglese va addomesticato o reinventato. Alla domanda della sua segretaria "Letters first?" (Prima le lettere?), il protagonista giocherellone risponde con uno stuzzicante "Let us first what?" (Prima che cosa?). L'ambiguità (e dunque l'effetto umoristico) scaturisce dalla quasi-omofonia tra il sostantivo "letters" e l'ausiliare esortativo "let us". L'apertura a una duplice interpretazione è stata resa con "Faxiamo subito?" seguito da "Facciamo subito che cosa?". Qui si è avuta la fortuna di trovare due verbi quasi-omofoni appropriati al contesto dell'ufficio e che permettono di ricreare un equilibrio funzionale. Ben più faticoso è tradurre un gioco di parole quando simili adattamenti e sostituzioni sono fuori questione. Morris si sveglia la mattina e subito accusa un mal di testa post-sbornia: "Your head really hurt. A medicinal hair of the dog" (letteralmente: La testa ti faceva davvero male. Un pelo curativo del cane). Il gioco di parole, di cui riportiamo solo un assaggio, si sviluppa nell'intero discorso imperniato su questo "cane", reale o meno che sia, nelle righe e paragrafi che seguono ("A hair of the dog. In its kennel behind the wardrobe"; letteralmente: Un pelo del cane. Nella sua cuccia dietro l'armadio). Il problema non è tanto tradurre "a medicinal hair of the dog". La locuzione (dalla credenza secondo la quale per prevenire la rabbia si doveva porre sulla ferita un pelo dello stesso cane da cui si era stati morsi - per analogia, i postumi della sbornia vanno curati con un bicchiere della stessa bevanda alcolica con cui ci si è ubriacati) è rendibile, per quanto risulti notevolmente appiattita, con "bicchierino curativo" o simili. Il guaio è che qui, per ragioni contestuali, la parola "cane" va preservata a tutti i costi. Unica soluzione accettabile (o l'unica sovvenuta al traduttore), è quella di optare per una strategia di compensazione. Stravolgendo drasticamente l'originale si riesce a salvare il "cane", ma mutandone la posizione e le relative connotazioni si sacrifica la valenza che esso ha in inglese. Si approda così alla sofferta versione finale: "La testa ti faceva davvero un male da cani. Un goccio curativo per riprendersi dal male cane". Una scelta discutibilissima, ma al traduttore questa libertà arrogatasi è parsa il male minore, se non l'unico mezzo per rispettare lo spirito del testo.
Nonostante la straordinaria duttilità dell'italiano e la distanza non eccessiva tra la cultura di partenza e quella di arrivo, la preoccupazione principale del traduttore è stata quella di minimizzare la perdita ineluttabilmente implicita in ogni atto traduttivo, presente anche laddove si crede di aver trovato una soluzione particolarmente felice. Il problema, infatti, non è tradurre le parole. La sfida più grande per il traduttore è tentare di restituire alle parole lo stesso suono e lo stesso sapore che le caratterizzano nell'originale. In traduzione, come ci ricorda Calvino, "tra i romanzi come tra i vini, ci sono quelli che viaggiano bene e quelli che viaggiano male. Una cosa è bere un vino nella località della sua produzione e altra cosa è berlo a migliaia di chilometri di distanza". Data la qualità della produzione scozzese in questione, non ci resta che augurarci che Il suono della mia voce sia tra quelli che navigano bene.