Non conoscevo Frederick Exley prima che l'editore mi chiamasse per propormene la traduzione. Ho accetto di tradurlo con qualche incertezza. C'era di mezzo uno sport, come il football americano, di cui ero all'oscuro, e temevo di non riuscire a coglierne lo spirito, più che il linguaggio, proprio per mancanza di competenze specifiche. Questo scoglio è stato felicemente superato grazie alla competenza di Paolo Pellizzari e al suo aiuto prezioso e generoso.
Così ha avuto inizio il viaggio all'interno di questa inconsueta "autobiografia romanzata". Inconsueta perché fin dalle prime pagine mi è stato chiaro che non di romanzo, ma di vita si tratta, di vita tradotta e sublimata in letteratura da uno degli spiriti critici più acuti e più dolenti che abbiano mai parlato dall'America e dell'America.
Il racconto si legge d'un fiato, fino in fondo, e ti lascia dentro un livido nell'anima. Ti lascia il senso di qualcosa di cui non ti senti direttamente responsabile ma che pure ti coinvolge oscuramente con un senso di imbarazzante complicità.
Non è facile soffrire come un cane e saperne scrivere come un dio. A Exley è riuscito. E sono vere tutte e due le cose: è un grande scrittore, ma è anche un uomo che ha sofferto come pochi e come pochi l'ha saputo dire. Scorticandosi e scorticando senza scrupoli la realtà e i suoi lettori.
Quando usciamo da queste pagine comiche, feroci, sanguinarie, ci rimane giusto il fiato - poco - che serve per gridare "Viva Exley!".
Per un traduttore Exley rappresenta un'esperienza estrema. Tradurre una lingua che ha rinunciato alla lucidità della costruzione felice, icastica, stringata dell'inglese, ma non per indulgere a uno stile ornato, ricco, esagerato, barocco, come tanti hanno fatto, complice magari la loro natura di esuli da lingue più "espansive", ma solo per seguire nei recessi, nei labirinti e anche nei cul de sac, il filo di un pensiero che si snoda e si annoda con la stessa solo apparente facilità. E la grande sfida è stata quella di tradurlo senza passare il pettine fitto su quei nodi, tentando la mimesi di quell'incerto equilibrio che lo caratterizza, tra monologo interiore e cronaca di vita, in un bilico che prima che della lingua è del personaggio. Andare avanti a tradurre mentre ridi a crepapelle e piangi fino a che le righe non ti ballano sotto gli occhi senza concedersi soste, nella speranza che in tal modo quell'emozione passi intera al lettore.
Uscito nel 1968 Appunti di un fan è una pietra miliare per tutta la letteratura americana venuta dopo - tanto che ne ritroviamo l'eco fin negli ultimi acclamatissimi e tradottissimi successi editoriali made in U.S.A. Eppure l'autore sembra essere stato oggetto di una congiura del silenzio.
Chi sceglie di scrivere parla forse sempre di sé, ma si difende, utilizza apposite maschere per allontanare, frammentare, sciogliere nella polifonia dei personaggi, nodi profondi della personalità. È dunque forse il mettersi a nudo di Exley l'elemento più indigeribile, quello che più ha dato fastidio. Quel suo sguardo al tempo stesso analitico, cinico e partecipe su un'America antiretorica e fuori dai copioni. Il suo saper fare grande letteratura senza essere però riducibile a letteratura. Avere il coraggio di dire 'Io' mentre descrive l'abiezione e l'autodistruzione di un alcolizzato più volte internato in manicomio, il fallimento, le ossessioni e i fantasmi di uno che sognava di diventare famoso.