Gatsby non è solo il protagonista di un classico della letteratura universale; è soprattutto un luogo suggestivo, struggente. Lavorando alla traduzione ho scoperto quanto è difficile seguire Fitzgerald nelle sue ellissi – nel montaggio delle scene ma anche nelle ellissi sintattiche – quanta sollecitudine richiede aderire a uno dei punti di forza stilistici del libro: la continua tensione fra lingua scritta e lingua orale. Fitzgerald alterna descrizioni nella lingua letteraria, alcune delle quali molto poetiche, a passaggi che attingono alla lingua parlata. Nick, il narratore, riproduce con sapienza i linguaggi altrui e nei dialoghi gioca con i registri più svariati: da quello formale, a volte un po’ antiquato, di Gatsby, a quello colloquiale di Tom, di Daisy e dello stesso Nick, fino ai registri popolari di Myrtle e Wolfshiem, la cui grammatica e ortografia lasciano spesso a desiderare. Una polifonia che è stato necessario assecondare soprattutto nelle sue asperità.
Fitzgerald predilige alcuni campi espressivi. Le parole del mare – «barca», «nave», «corrente», «navigare di bolina» – e quelle legate alla tenebra – «buio», «scuro», «oscuro» – hanno portato i critici ad accostarlo a Conrad. Sono parole che affiorano a più riprese nel romanzo, sia in senso proprio sia in senso figurato, e così pure le parole legate all’assenza di quiete – «inquieto», «irrequieto», «senza quiete», «senza posa», «senza sosta». Conservare i rimandi, anche a distanza di molte pagine, e conservare nel contempo la straordinaria variazione di Fitzgerald nell’uso dell’inglese, mi è costato molto impegno, perché spesso i campi semantici di due lingue non ne vogliono sapere di sovrapporsi. Il grande Gatsby è un luogo contraddistinto dalla non permanenza: priva di ormeggi, la scrittura non può ancorarsi alla descrizione di una successione di eventi ben delineata. L’ellissi di Fitzgerald nasce da qui, dalla precarietà, ma da qui nasce anche la vaghezza che impregna il romanzo e seduce i lettori.
Non è stato facile stabilire quando Nick e Gatsby cominciano a darsi del tu, visto che non si chiamano mai con il nome di battesimo. Fino al quarto capitolo si rivolgono l’uno all’altro dicendo «Mr Gatsby», «Mr Carraway», ma alla fine Nick dice al padre di Gatsby che erano amici stretti. Ho deciso di passare al tu nel settimo capitolo, quando le confidenze sono state fatte e le maglie del rapporto fra i due sono ormai strette. Non ho invece mai avuto dubbi sul fatto che tra loro dovessero darsi del lei e non del voi: il romanzo è così moderno nel suo impianto che la scelta è stata del tutto naturale.
L’agitazione che serpeggia tra le pagine del romanzo è stata anche mia fino in fondo. Proprio nell’ultima pagina compare l’aggettivo orgastic, una variante poco comune di orgasmic. Anche in italiano, «orgastico» è poco comune. Il 24 gennaio 1925 Fitzgerald scrisse una lettera a Max Perkins, il suo editor, chiedendogli di vigilare affinché il correttore di bozze non cambiasse orgastic in orgiastic visto che l’aggettivo da lui scelto era attinente all’orgasmo e non alle orge. Come una carta assorbente, ho fatto mia la sua inquietudine e fino all’ultimo sono stata in trepidazione – e ho controllato a ogni giro di bozze – perché quella i non facesse capolino nell’edizione italiana. Accogliere l’estraneo – lo Straniero – in quanto tale, senza assimilarlo, dovrebbe essere il fine etico della traduzione, ci ricorda Berman. È quello che ho cercato di fare con Gatsby e con Fitzgerald.