I flagellati del vento dell'est

Argomento: Romanzo
Pubblicazione: 2 marzo 2019

Quando lo scopritore arrivò nella prima isola

né uomini nudi

né donne nude

occhieggiavano

innocenti e paurosi

dietro la vegetazione.

(Preludio, Jorge Barbosa)

Come scrive Jorge Barbosa nei versi di Preludio, non c’era nessuno ad attendere i primi europei che sbarcarono sulle isole di Capo Verde. E se non c’erano occhi indigeni appostati dietro le frasche, è logico pensare che non ci fossero neanche idiomi incomprensibili con i quali doversi confrontare. La lingua capoverdiana – abituiamoci a chiamarla creolo – sarebbe infatti nata in seguito, durante la conversione di Capo Verde da arcipelago disabitato a base strategica della corona portoghese per i suoi traffici tra Africa e Brasile.

Superate le ottocentesche teorie folclorico-degenerative, che vedevano nella lingua e nella cultura di Capo Verde soltanto un imbastardimento di quella portoghese, studiosi e intellettuali di primo Novecento iniziano a guardare con interesse scientifico alle origini del creolo. Si comincia infatti a riconoscere che il capoverdiano non è una rozza mescolanza tra il portoghese e le lingue della costa occidentale dell’Africa, bensì una vera e propria lingua che si sviluppa di pari passo con un’identità culturale ormai abbastanza matura da essere riconosciuta e valorizzata. Le potenzialità di questa presa di coscienza sono molteplici e pericolosamente affascinanti per un Paese che verso gli anni Trenta affronta la fase più oscura della dominazione portoghese. La rivendicazione del creolo come espressione di una cultura autonoma, da contrapporre a quella imposta dalla madrepatria salazarista, assume ben presto un significato politico condiviso dalla maggior parte dell’intellighenzia dell’Arcipelago. Tuttavia, in ambito letterario, l’uso esclusivo del creolo rimane una scelta dei singoli poeti e scrittori, che in molti casi ci rinunciano per estendere oltre i confini delle isole il bacino dei propri lettori.

Successivamente, in romanzi come Chiquinho di Baltasar Lopes, Hora di bai di Manuel Ferreira, e in generale nell’opera di Manuel Lopes, il creolo affianca la lingua portoghese facendosi carico di veicolare un ricco corpus di tradizioni popolari e di esprimere dinamiche sociali altrimenti intraducibili. Ma la missione non è semplicemente di stampo linguistico. Tali opere, anche grazie all’uso del creolo, riescono in parte a colmare le lacune lasciate dall’antropologia e dall’etnologia che, fino ad allora, si erano avvicinate alla dimensione capoverdiana con strumenti critici ritenuti inadeguati.

Nel caso specifico de I flagellati del vento dell’est, la narrazione è intrisa di terminologie fondamentali per la comprensione della dimensione rurale di Santo Antão, l’isola in cui il romanzo è ambientato. Alcune di queste possono avere la funzione di ideologema bachtiniano, ovvero sono parole che, come una sorta di finestre, permettono al lettore di affacciarsi su contenuti inizialmente non evidenti ma spesso fondamentali per capire il significato profondo di queste stesse espressioni, e quindi dell’intero romanzo. Così, ad una lettura più attenta del testo, l’universo rurale descritto da Manuel Lopes rivela tutta la sua arcaicità ereditata dal sistema economico coloniale. E se le colture e le tecniche agricole citate nel romanzo ci parlano di una realtà contadina fatta di sfruttamento e di penuria, è attraverso la rappresentazione delle relazioni umane che l’affresco di Manuel Lopes acquista una forte valenza di denuncia sociale.

Il glossario che proponiamo in appendice, oltre a risolvere numerosi problemi di traduzione, ha lo scopo di “traghettare” verso l’italiano alcuni di questi lessemi fondamentali per comprendere l’opera. Altre espressioni, tuttavia, sono state sciolte per non appesantire il testo con il ricorso eccessivo ai corsivi. I casi più interessanti riguardano, a mio avviso, la geografia agricola dell’isola, articolata in ribeiras, sequeiros e regadios. La prima espressione può creare molti dubbi al traduttore a causa del suo doppio significato: quello di “ruscello”, in portoghese, e quello aggiunto di “stretta valle” o “vallone”, in ambito capoverdiano. C’è poi una convergenza tra i due significati che crea un’ulteriore difficoltà e risiede nel fatto che i valloni, che si estendono dall’interno dell’isola fino al litorale, durante il periodo delle piogge (as águas) si trasformano in veri e propri corsi d’acqua che sfociano in mare. Solo il contesto (e in questo caso la stagione) può chiarire se si tratta di terre rese fertili dalla pioggia e conseguentemente trasformate in orti, o di piccoli fiumi. L’opposizione tra sequeiros e regadios ci informa invece sulla fondamentale distinzione tra le terre coltivate “a secco” e quelle “irrigate” (da regar, “annaffiare”), un distinguo non banale per una terra martoriata dalla siccità.

Forse, proprio come il padre di Chiquinho – personaggio eponimo del romanzo di Baltasar Lopes – anche il traduttore che affronta un romanzo capoverdiano dovrebbe possedere almeno tre libri: una grammatica portoghese, un codice civile e un Lunário Perpétuo.