Questo è il secondo romanzo di Philippe Djian che ho tradotto. Il primo è stato Imperdonabili (Impardonnables), uscito a ottobre 2009 sempre per Voland. Ma questo è il primo romanzo di Djian che ho ritradotto.
37,2° le matin era già uscito in italiano nel 1986 con il titolo Betty Blue, tradotto da Gaspare Bona per De Agostini. Per un po’ ho pensato di lavorare con la sua traduzione sotto gli occhi, o anche solo di leggerlo prima. Susanna Basso, nel suo ultimo libro Sul tradurre, scrive pagine bellissime a proposito di tradurre il tradotto, di quanta ricchezza possa portare alla nuova traduzione e quanta soddisfazione dia poter citare un collega, una collega, quando la sua resa è quella giusta anche per noi.
Ma alla fine no. Non l’ho fatto. Non sono andato in biblioteca, non ho cercato la traduzione di Bona, non l’ho letta. Tantomeno l’ho tenuta sulla scrivania per consultarla durante il lavoro. Non me la sono sentita. Sostanzialmente per due motivi. Il primo è che quando Daniela Di Sora, direttrice editoriale della casa editrice Voland, mi ha chiesto di tradurre Philippe Djian è stata subito chiara sul fatto che non mi stava commissionando una traduzione e basta, di un romanzo sia pure bellissimo, sia pure di un grande scrittore. No, questa volta mi chiedeva di entrare a far parte di un progetto editoriale abbastanza ampio e ambizioso. Voland ha comprato i diritti di una serie di titoli di Djian diventando così il suo editore italiano a tutti gli effetti, ha intenzione di pubblicare non solo i suoi ultimi romanzi ma anche quelli che considera i suoi capolavori del passato, e aveva deciso di affidarne la traduzione a me.
Al di là dell’enorme piacere, mi sono sentito investito di una bella responsabilità: diventare la voce italiana di Philippe Djian, e non solo di un suo romanzo.
Djian è un autore che lavora sullo stile a livello maniacale. Anche quando può sembrare trasandato. In particolare 37,2° al mattino, oltre a essere una storia d’amore strepitosa, è anche la storia di uno scrittore che tarda a ottenere riconoscimenti per il suo stile giudicato da tutti troppo sciatto, e tutto il libro è costruito su un registro apparentemente basso, spesso volgare, con cui lui riesce a comporre un gioiello di scrittura inimitabile.
Per fare questo ho sentito il bisogno di mettermi in ascolto attento della voce dello scrittore, solo io e lui, senza altre suggestioni o altri linguaggi. Avevo bisogno di ascoltare come risuonava in me la voce di Philippe Djian, che tipo di richiami riportava a galla, quali reminiscenze, quanti ritmi, che materiale faceva affiorare dal mio corpo linguistico, dalla mia memoria di traduttore.
Il secondo motivo, invece, è decisamente meno nobile. La verità è che per fare tutte queste belle cose la lettura di una prima traduzione non può che essere di aiuto. È tutto materiale in più che viene ad aggiungersi alla costruzione del timbro, della tonalità di una traduzione nuova. Ma per avvertirlo come ricchezza e non come rumore bisogna avere un orecchio pienamente polifonico. Bisogna essere davvero molto bravi. E io sapevo di non esserlo abbastanza. Non ancora.