Milano, interno, giorno. Inizi 2009. Ricevo da Voland il testo originale di Prime notizie su Noela Duarte nel bel mezzo della ristrutturazione di casa mia, tra polvere, macerie e scatoloni. È scritto a sei mani da tre autori che non ho mai tradotto, e sui quali nell’ultimo mese ho cercato di documentarmi al meglio. Il tempo era poco, come sempre, perciò al mio appuntamento con Noela Duarte, la fotografa con la quale mi attende un avvincente corpo a corpo non solo traduttivo, arrivo agitata, mossa da una spinosa curiosità che nel momento in cui apro il libro si fa più incalzante. La prima cosa che mi colpisce è la sensazione che sia stato scritto da una sola persona, perché l’elemento che salta subito all’occhio e all’orecchio è il sottile lavoro di uniformazione che si intravede nella rete di rimandi disseminati nel libro, tutto teso a far passare le peculiarità stilistiche di ogni autore per tratti caratteristici dei sei personaggi che narrano la storia e che sono uniti da un fattore comune, l’infatuazione per Noela, che mi contagia prima ancora di iniziare a tradurre.
Fin qui, tutto bene. L’obiettivo è chiaro: sei voci difformi da ricreare, una protagonista potente ma senza voce, un vociferare sommesso di parlate e idioletti che virano spesso al colloquiale. Ma la sfida è più complessa, perché il nodo cruciale sta nel riprodurre lo stile tipico di ogni autore mirando alla stessa omogeneità dell’originale. Comincio in sordina, cerco di ascoltare il movimento del testo, anzi dei testi che compongono il libro, e porto a termine una prima stesura. Alla seconda avverto l’urgenza di un cambio di prospettiva, ed è allora che capisco di dover spostare l’attenzione dai singoli autori (tre) ai singoli narratori (sei), perché sono le loro modalità espressive, quel loro monologare inascoltato, che devo traghettare nel testo in italiano e perché solo così potrò ottenere un testo unitario.
Milano, interno, giorno. Inizi 2010. Prime notizie su Noela Duarte è in libreria e io ho finalmente uno studio degno di questo nome. Mi tocca il compito, ingrato e sublime, di rileggere il libro. Mi rimetto in ascolto, e quelle voci adesso sono più familiari di un anno fa, anche se, com’è ovvio, non sono più le stesse. Ritrovo Marcos, narratore del primo racconto, con quel suo garbo nel parlare, venato di un’ironia quasi impercettibile, e la curiosità riservata di chi la sa lunga e fa di tutto per nasconderlo. Poi è la volta del cecchino che mi ha fatto impazzire con i giochi di parole costruiti sul verbo “disparar”, che significa sia sparare (come fa lui) che scattare foto (come fa Noela) e che mi sfida nuovamente col suo tono sprezzante e risentito e la sua cronaca serrata delle giornate passate a spiare la fotografa. Ecco Helguera ed ecco anche il maggiore, odioso residuo traduttivo, come si dice in gergo, la mancata o appena accennata riproduzione dell’intraducibile cadenza messicana con cui dà fiato a una parlantina melliflua, che trasuda una meschinità disperata. Vado avanti, ripercorro tutto il viaggio compiuto e arrivo a Barthes, lo sgherro che tiene in ostaggio Noela nell’ultimo racconto e che alterna goffamente un lessico triviale a banali cliché che lui crede sofisticati. Ed è proprio Barthes a riservarmi una piacevole sorpresa, a rinnovare in me quella sensazione tante volte provata alla fine del libro, quel senso di incompiutezza, quel bisogno di scavare ancora un po’, di scoprire qualcosa in più sull’ineffabile Noela Duarte.
Quel qualcosa in più che mi ronza in testa ancora adesso, con il libro ormai chiuso e riposto in uno scaffale, a far da contraltare a quel qualcosa in meno che rimane sempre tra le righe di una traduzione. Magari si lascerà dire in una prossima puntata, chi lo sa, queste in fondo sono solo le prime notizie su un’eroina che, sono certa, andrà molto lontano.