Tradurre l’opera matura di Henry James significa affrontare una scrittura tendente all’astrazione, un discreto uso di idiomi, o luoghi comuni, e un complesso tessuto metaforico, labirinti di senso in lunghi paragrafi, una punteggiatura idiosincratica, l’abitudine al soggetto impersonale e alla indeterminatezza di the thing, soggetto o oggetto che sia. The Jolly Corner naturalmente non fa eccezione. Pubblicato nel 1908, scritto al ritorno in Inghilterra dal traumatico viaggio negli Stati Uniti del 1904, è il più conturbante dei racconti che compongono una piccola trilogia newyorchese incentrata sul tema del ritorno dall’esilio, e il più vicino allo sperimentalismo novecentesco, a quel modo di raccontare che ad un’ammirata Gertrude Stein appariva floating, un galleggiare di parole e sintagmi, un flusso di comunicazione apparentato ad una oralità ricca di incisi, esitazioni, e intrigo temporale.
Scriveva Peter Brooks che un simile stile forza il lettore in una relazione di trasferenza, affermazione appropriata per L’angolo bello per la procurata identificazione del suo lettore o traduttore nella situazione di un io diviso, formato da una ossessiva curiosità e strisciante paura, dall’accettazione della sfida dell’ignoto e istinto di autoconservazione. Spencer Brydon, il protagonista del racconto, è alla ricerca spasmodica della corposa apparizione di un vivente alter ego, l’abitante della sua bella vecchia casa di famiglia, e quel che egli vuole e immagina si trasferisce nella realtà narrativa attraverso l’invenzione di una straordinaria mimesi dell’ipotetico, che costituisce l’energia che muove lo stile, mentre l’azione del racconto corrisponde alla verifica dell’ipotesi dell’esistenza di quell’altro, il newyorchese contemporaneo che l’espatriato Brydon avrebbe potuto essere se… se non avesse lasciato la patria per l’Europa, non avesse disubbidito al padre, o condotto un’esistenza di ozi al limite della decenza.
Nel crescendo di tensione prodotto dalla maniacalità della verifica si spazzano via certezze, prime tra tutte quelle grammaticali di tempo e di modo.
Mi è parso quindi che il traduttore dovesse umilmente cercare di rendere il ritmo di peculiare oralità di questo racconto, seguendone anche l’idiosincratica punteggiatura, e di trasferire in lingua italiana il guazzabuglio di alternanze tra indicativi e condizionali, nonché rispettare quel ricorrente assaggio dalla metafora alla lettera, il quale avviene in sommo grado quando il protagonista ingaggia l’altro da sé nella caccia, quasi in una accelerazione in presa diretta, inscenando sapienza e stratagemmi dell’arte venatoria fino a quando la preda non si manifesta davvero, e al cacciatore accade di essere braccato e sopraffatto.
La voce del narratore non è assente in questo straordinario esperimento narrativo, anzi vi aggiunge dubbi e ironie. L’esempio primario si trova nel titolo stesso del racconto, dove jolly è stato tradotto con allegro, ameno, prediletto; ho preferito bello perchè più comune e generico, come può esserlo jolly, e poi perchè nella combinazione con corner suggeriva allusioni sia al valore della casa (il bell’angolo con vista degli annunci immobiliari della New York primonovecentesca, così prominente nel racconto), sia alla tenera considerazione del protagonista per quella sua proprietà (ben resa con prediletto nella traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti per Einaudi). Mi è parso poi che il comune bello meglio riflettesse l’interpretazione di un lettore illustre, T.S. Eliot, in La riunione di famiglia: …dovrà affrontarlo/ e non sarà un bell’angolo [a jolly corner] Non è davvero un bell’angolo quello in cui alla fine è costretto il protagonista, consapevole dell’ironia del successo della sua avventura. E infine, non poteva mancare un accenno all’agrodolce ironia di James sulla sua vecchia cara New York, l’angolo prediletto distrutto o trasformato in un detestabile grattacielo, senza umanità perchè senza memoria né passato, un bell’angolo davvero.