Avevo sempre ignorato la produzione letteraria di Jón Kalman Stefánsson finché cinque anni fa, durante il mio soggiorno annuale a Reykjavík, la docente di lingua islandese me ne parlò entusiasta e mi regalò un suo libro: fu un colpo di fulmine. Tra tutti gli autori islandesi che ho letto e che ho tradotto, Kalman è senza dubbio quello che da subito ho sentito più affine a me, alla mia lingua, alla mia sintassi. Ricordo di aver pensato che se mi fosse toccato il privilegio di tradurlo non avrei avuto bisogno di frugare nell’area di Broca per scovare linguaggi che non mi appartenevano, per dare una voce a personaggi a me alieni con cui mi sarebbe stato difficile immedesimarmi e che finalmente sarebbe stata una traduzione facile e immediata. Al momento di affrontarla, invece, mi sono accorta di quanto fosse difficile e nient’affatto scontato l’impegno che avevo davanti, e di come dovessi lavorare per sottrazione, operando successive ripuliture con un consapevole labor limæ, perché nei testi di questo grande stilista ogni parola è al posto giusto, niente è superfluo.
Kalman esordisce come poeta, e si sente: la poesia ha lasciato un segno indelebile nella sua prosa, una prosa lirica che ha il ritmo del respiro, che segue l’andamento naturale del pensiero, un pulsare vitale che fluisce ininterrotto trovando le sue pause al punto giusto. Un critico ha detto che si tratta della prosa più efficace che sia mai stata scritta in islandese negli ultimi decenni, e trovo difficile non essere d’accordo. Talvolta si vena di malinconia, altre volte pulsa di passioni, talvolta sopite, altre volte espresse con foga. A tratti prende il ritmo del mare, quel pesante risucchio che richiama a sé, che dà tanto ma talvolta pretende la vita.
Il mare, appunto, ecco la fatica maggiore: trovare i termini tecnici per un lavoro manuale e fisico che non conosco e con il quale non mi sono mai misurata. Avevo persino pensato di andare a Suðureyri, sui Fiordi Occidentali (dove è ambientata la storia) e partecipare al progetto Fisherman, per vivere almeno per un giorno la vita dei pescatori del nord e capire cosa significa davvero far parte dell’equipaggio di una sei remi che ogni notte esce in mare per la pesca al merluzzo. Alla fine mi sono accontentata di spulciare nomenclature, consultare siti marinareschi italiani, fare domande all’autore e a vari amici per cercare di risolvere alcuni punti contenuti nella prima parte del libro.
Quando avevo segnalato questo romanzo all’editore, cinque anni fa, consigliandone vivamente la pubblicazione, avevo ottenuto solo un tiepido interesse senza alcun seguito, e ricordo di essermi chiesta a lungo perché. Tempo dopo, a contratto concluso, abbiamo avuto modo di riparlarne e l’editore mi ha spiegato che dalla mia scheda emergeva la solita storia di pescatori islandesi, ennesimo topos letterario già sfruttato all’inverosimile e di cui forse si poteva fare a meno. In effetti, la bellezza e il fascino di questo libro non sono quantificabili in un riassunto: stanno nel modo in cui questa storia è raccontata, non in quello che racconta. Lo stesso Kalman ha detto in un’intervista che non è importante di cosa parla un libro, ma come ne parla. Ecco: le vere protagoniste di questo romanzo sono le parole. Sono i versi e le poesie che riempiono la testa di Bárður, sono le riflessioni del ragazzo che medita su certi termini, è il racconto partecipato degli ultimi momenti dell’amico, che solo riscatta il dolore della morte. Sono le parole che aprono nuovi orizzonti e danno la possibilità di coltivare le proprie aspirazioni.
Una volta deciso, con fatica, che la traduzione era finita e che dovevo consegnarla, ho provato un vuoto enorme, quel senso di niente sarà più come prima che poche volte avevo sentito così intenso alla fine di un lavoro. E così ho capito che la prosa di Kalman non era affatto mia ma di tutti, perché Paradiso e inferno racchiude una tale, profonda e partecipe umanità che non può non toccare il cuore di ogni lettore.