Tradurre Georges avant Perec, tradurre Georges déjà Perec
Tre (lui, lei e l’altro) è il numero perfetto per un romanzo d’amore, meno, forse, per una relazione seria. E ancorché il titolo non lo suggerisca in alcun modo, L’attentato di Sarajevo è la storia di un triangolo amoroso, o almeno, è anche questo.
Ma prima, un passo indietro.
Parigi, 1956. Un ventenne Georges Perec sul retro di una foto del padre prova a scrivere “C’è del marcio in Danimarca” ma non ultima la frase. Ha vent’anni, è uno studente a tempo perso di Storia all’università, ammira Shakespeare (tra gli altri), di cui ha appena letto Amleto, e vorrebbe scrivere anche lui qualcosa di grandioso, ma non vi riesce. È in treno, torna dal cimitero militare di Nogent-sur-Seine dove ha visitato la tomba del padre per la prima volta sulla cui lapide legge il suo stesso cognome: Perec, Icek Judko. Soltanto anni dopo, grazie alla psicanalisi con Michel de M’Uzan, capirà il perché di quel blocco nella sua ispirazione letteraria benché così volenterosa (in una lettera del ’57 all’amico Maurice Nadeau lo definisce “un’insormontabile barricata”), e che diventerà anche l’incipit di uno dei suoi libri più commoventi W o il ricordo d’infanzia (1975): “Non ho ricordi d’infanzia”, scriverà. Eh, già: ebreo, la Storia “con la S di scure” ha falciato la famiglia di Georges. Suo padre al fronte, sua madre ad Auschwitz; a sei anni è orfano e cresce adottato da una coppia di zii.
In quel periodo, grazie alla cugina Ela, conosce un trascinante gruppo di pittori e intellettuali jugoslavi attivi a Parigi in cui spicca la figura di Žarko Vidović, giovane professore di storia dell’arte di cui diventa subito intimo amico. Accanto a lui, la sua amante Milka Čanak. Di Milka, col passare del tempo, Georges si innamora. Si insinua nella coppia, corteggia Milka e rivaleggia con Žarko. E quando la situazione si fa critica, quando cioè i due amanti tornano in Jugoslavia per preservare la loro storia d’amore, Georges non ha dubbi: il 1° agosto 1957 arriva a Belgrado. Più che avere Milka, vuole toglierla a Žarko, rivaleggiare con l’intellettuale che è, e dimostrare a se stesso di non essere più un ragazzo ma un uomo.
Questo Perec ventenne un poco inconsapevole dei propri potenti mezzi letterari – non è ancora l’autore de Le cose (1965 e Prix Renaudot) e La vita istruzioni per l’uso (1978 e Prix Médicis) né il collega di Raymond Queneau e Italo Calvino all’Oulipo (Opificio di Letteratura Potenziale) –, che ha sete di imparare e soffre la solitudine della sua chambrette a Rue Saint-Honoré, che si getta nell’azione della scena parigina e si consiglia: “Esci, agisci, lanciati nel vuoto, sbaglia, fai casini”, ebbene questo ragazzo qui scrive L’attentat de Sarajevo: un gioco d’amore a tre, ma molto altro.
Quanto detto finora – che solo all’apparenza è un affaire anodino che potrebbe infastidire Proust e dare man forte a Sainte-Beuve – io lo ignoravo quando mi sono ritrovato il libro tra le mani, ma si è rivelato assai importante in fase di traduzione. Ho scovato L’attentat, cercando nel catalogo di un editore francese che seguo sempre con grande attenzione, Édition du Seuil, e poi l’ho proposto calorosamente ad Andrea Gessner (editore e direttore di edizioni nottetempo) che si è lasciato contagiare dal mio entusiasmo. In qualità di traduttore non sono mancate alcune esperienze in cattedra sia in alcuni seminari sia in laboratori di traduzione (insieme a Monica Rita Bedana e a Carlo Alberto Montalto ho infatti ideato il corso “(Ri)Tradurre i classici”), e sempre consiglio di fare delle proposte agli editori, ma avverto: occorre cercare molto e bene (leggere molti libri stranieri) e mirare poco e bene (riconoscere e proporli all’editore giusto). Così, la proposta è andata a buon fine.
Ma veniamo al lavoro di traduzione.
Nell’incipit, poco adatto a un romanzo, un je che mai si dichiarerà invoca “Signore, Signorine, Signori” e richiama l’attenzione come in una requisitoria d’avvocato. “Se oggi prendo la parola davanti a voi, è per insorgere contro alcune interpretazioni illegittime ed erronee che sono state date dell’attentato perpetrato il 28 giugno 1914 a Sarajevo contro l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando.” Lo stile formale, i prestiti dal linguaggio giurisprudenziale come “prendre la parole devant vous” o dal genere del polar come “perpétré” somigliano poco a un romanzo d’amore. E si prosegue, per due pagine, a parlare della responsabilità progettuale della Propaganda della Grande-Serbia nella mano di chi ha poi commesso il delitto: la dissertazione sulle cause della Grande Guerra di uno storico che getta qui le sue premesse. Volto pagina e si cambia totalmente registro. Di nuovo un je (lo stesso, un altro?) inizia in medias res: “Incontrai Branko per la prima volta a Parigi, una sera di novembre.” Ecco che il tono è totalmente un altro. Proseguo la lettura: “Eravamo al Dôme, credo, oppure al Select, o comunque in uno dei caffè di Montparnasse che agli stranieri, non so perché, piacciono tanto.”
Se pagine prima, il polisindeto e l’argomentazione netta, deduttiva, cartesiana direi, sono le strutture portanti della scrittura/dissertazione di Perec, in queste altre il suo centro d’attrazione è il ricordo: arbitrario, vago, frammentario, e ancora nebuloso, ora enunciato ma poi subito smentito, in poche parole manipolato. Ed è qui, nella manipolazione del ricordo – per questo nel testo ho scelto di tradurre “je m’en souviens” con “mi ricordo” – che ritroviamo pur in questo suo primo romanzo il migliore Perec che esplora già il dedalo della memoria come un refrain, che utilizza il rammemorare come esserci e insieme come nascondersi.
Infatti scrive: “Ancora una volta, lo ripeto, non faccio che ricordare: parto da un certo numero di fatti, da un certo numero di impressioni, e cercherò di metterli in ordine e organizzarli in modo razionale. Niente di più.”
Ecco quindi la prima difficoltà, di natura stilistica: saltare – in questa struttura di doppia narrazione – tra i due registri: da un lato rendere l’inattaccabile ricostruzione di una verità storiografica, dall’altro rispettare il lungo e tortuoso tentativo di costruire e mistificare una verità personale. Ho detto tortuoso, ma avrei potuto scrivere anche incoerente o impreciso. Ed ecco la seconda, e forse più grande, difficoltà che ho riscontrato: da appassionato di Perec, ho dovuto zittire il mio desiderio di fargli fare bella figura, di correggerlo. Ho dovuto accettare di tradurre e comprendere (poiché tradurre è sempre comprendere) Georges avant Perec. Per questo, mi è servito comprendere (la parola sacra ritorna) da cosa questo romanzo nasceva e soprattutto chi lo avesse scritto.
Da un lato, nella divagazione storica sulla Grande Guerra – che gli proviene dalla frequentazione di pittori e intellettuali jugoslavi a Parigi e dall’aver vissuto un mese (l’agosto del 1957) a Belgrado – replica la ricostruzione eziologica causa-effetto che apprende dai manuali di Storia all’università. Dall’altro, nella storia tra il narratore e i due personaggi di Branko e Mila, rivive la sua educazione letteraria: dall’amore tragico di Shakespeare al feuilleton romantico, le letture gli servono come architrave di una storia d’amore rincorsa e finita male. Ho immaginato il giovane Georges mettere su carta quanto accadutogli con urgenza camuffando di poco i nomi. Già, perché di ritorno da Belgrado, dopo l’avventura jugoslava, il blocco dello scrittore scompare e in “cinquantatré giorni” (così sostiene nelle sue missive d’accompagnamento) lo scrive, o meglio lo detta a Noëlla Menut, sua vecchia compagna di liceo.
Il Georges che scrive – e il je del romanzo – per partire ha svuotato il suo conto in banca, è tornato a mani vuote (senza la sua amata), è stato illuso e usato per un gioco di gelosia in una coppia, e ha perso l’agone. Così, le piccole ripetizioni e ridondanze sparse, infime incongruenze e ingenuità, le stesse che mi piace pensare lui stesso avrebbe emendato se lo avesse riletto ancora un’altra volta, ci sono tutte:
Meritavano di esserci. Ne L’attentat de Sarajevo, primo romanzo dell’autore andato smarrito per volontà probabilmente di Perec stesso dopo due rifiuti (da Seuil stesso e da Lettres nouvelles), scritto di getto con potenza e ardore, come un tragicomico romanzo di formazione, manca quello che Roland Barthes chiama après-coup (che spiega essere “una specie di scoppio ritardato”), quella distanza necessaria per raccontare l’amore.
Ho scritto “meritavano di esserci” non soltanto per una basilare e professionale questione di rispetto del testo – come Antoine Berman e Paul Ricœur, posizionati l’uno sulla spalla destra e l’altro sulla sinistra a vegliare sul mio lavoro, suggerivano – ma perché, pur rimanendo dell’idea che appartenessero parzialmente a una inesperienza di mestiere, preavvertivo quanto solo alla fine della prima stesura, quando cioè L’attentato di Sarajevo nasceva in italiano, mi è stato chiaro: nell’enfasi, nell’esasperazione del sentimentalismo, del côté romantico, c’è la volontà di farsi beffe del romanzo d’amore. Di quegli scrittori che, come scrive Perec, utilizzano espressioni del genere “dai meandri della mia coscienza”, che lui stesso subito bolla come “pedantoni”. Inoltre, usa le ripetizioni e i ritornelli per creare false piste ed eludere la lettura logica del lettore. Manipola saggiamente costrutti e affermazioni per irretire il lettore. “Non mi era mai passato per la testa che forse stavo imbrogliando” scrive dopo aver presentato gli equilibri del trio amoroso. E verso la fine, quando si pensa di aver afferrato tanto la natura dei suoi sentimenti in gioco come pure le forze in essere della storia, scrive: “Prendo coscienza della mia completa incapacità di ricordarmene, dichiaro nulle tutte le spiegazioni che ho potuto dare precedentemente” e conclude: “Non dico che questa spiegazione sia soddisfacente. Forse è anche falsa. Ma la do per buona.”. Cosa ci si può aspettare, se non questo, dallo stesso scrittore che inizia proponendo un triangolo al centro del discorso amoroso, e finisce adducendo la morte come unico rimedio, unico farmakon all’amore medesimo.
E proprio come i grandi scrittori, dopo essersi misurato con l’amore, Georges déjà Perec ha qualcosa da dire anche sulla morte. Questo livello di lettura spiega infatti come mai il récit del triangolo amoroso che culmina con una morte (di chi, lo lasciamo scoprire al lettore) confini con una dissertazione sulle cause della Prima guerra mondiale, o meglio sulle responsabilità di fronte all’assassinio del principe ereditario Francesco Ferdinando. Chi è il responsabile, sembra chiedersi e chiedere al lettore Perec, la mano di chi uccide o la mente che lo ha convinto a farlo?
E ci lascia in sospeso, con dubbio: varrà anche in amore?
P.S. Fiero del suo operato, Georges Perec, invia il manoscritto a due editori, Seuil e Lettres nouvelles, che lo rifiutano entrambi tra gli elogi. E mentre decide di metterlo da parte “almeno per un anno, mi dedicherò a un altro progetto”, lo perde e non ne farà più parola. Verrà ritrovato solo dopo la sua morte (1982) in due differenti versioni. La prima, ricuperata dal fondo di un cassetto all’IMEC (Institut Mémoires de l’Édition Contemporaine), l’altra ritrovata agli inizi degli anni ’90 da uno dei pittori jugoslavi conosciuti da Perec, Mladen Srbinović, che lo fa fotocopiare perché giunga all’erede Perec. Dal ritrovamento salvifico e l’incrocio delle due versioni, nasce L’attentato di Sarajevo.