Di questo romanzo si parlerà molto probabilmente per questioni relative all'argomento, più che alla sua resa letteraria. Perché è di quelli spinosi e irrisolti: Martin Heidegger e le sue compromissioni col regime nazista. Com'è possibile che il più importante filosofo del XX secolo sia stato nazista?, si chiede Feinmann. E quali ombre getta tutto ciò sul XX secolo, definito da Discépolo, in uno struggente tango citato nel romanzo, uno spreco di malvagità insolente? E quand'è che la malvagità è insolente? Quando spoglia l'uomo della sua identità, quando ne umilia la dignità, distruggendolo prima ancora di ucciderlo.
Il romanzo si divide in due parti; nella prima, un uomo scrive a suo figlio la propria avventura umana e professionale nella Germania nazista, la sua iscrizione al partito sulla scia del venerato maestro, Heidegger appunto. L'io narrante si chiama Dieter Müller, nazista atipico, perché incapace di odiare, uomo mite e impaurito, che dopo l'avvento del regime si riduce a insegnare, all'Università di Friburgo, ciò che la direttiva Rosenberg impone, cioè un Nietzsche cucinato in salsa razzista e antisemita. Ma nonostante la sua obbedienza, il professor Müller si sente in pericolo, e approfittando dell'incarico offertogli dalle autorità accademiche di tenere un ciclo di conferenze (su Heidegger, naturalmente) nella Parigi occupata dai tedeschi, fugge in Argentina, poco prima della catastrofe finale.
A Buenos Aires, Dieter Müller comincia a rifarsi un'esistenza, ma i vecchi fantasmi vengono a riprenderselo; i nazisti sfuggiti al processo di Norimberga stanno preparando, proprio in Argentina, la riscossa, e lo invitano a partecipare alla costruzione del Quarto Reich. L'invito gli viene formalizzato durante una cena che ha luogo nel profondo della pampa, e a cui partecipa la crema degli aguzzini nazisti. Ed è durante questa cena, a tratti delirante, che Dieter Müller viene a sapere degli orrori dei campi di concentramento, proprio dalla viva voce dei suoi commensali, che oscenamente satolli e ubriachi gli esibiscono (attraverso foto e film) le prove del loro operato, di cui naturalmente vanno fieri. Sgomento, Dieter Müller torna a casa, e con una vecchia Luger si spara un colpo davanti alla foto di un deportato che si avvia alla camera a gas. Così finisce la lettera al figlio (che in omaggio al maestro si chiama Martin), datata novembre 1948, e la prima parte del romanzo.
La seconda parte ha per protagonista Martin, docente universitario a Buenos Aires, che alla fine degli anni sessanta, attraverso una serie di escamotage, riesce a farsi ricevere da Heidegger nella sua baita nel cuore della Foresta Nera. E una volta lì, gli presenta il conto della prematura morte di suo padre, mostrandogli la foto del deportato dinanzi alla quale si è ucciso, ma il filosofo lo ascolta senza dire una parola, con atteggiamento altèro, quasi sprezzante, poi ne va chiudendo la porta e lasciandolo da solo nella sua baita, finché non lo scaccerà la moglie Elfride.
Heidegger si rifiuta di fare i conti con un passato che brucia, ma intanto è diventato il filosofo di riferimento della nuova intellighenzia francese, da Foucault a Deleuze a Derrida. Come ha potuto il nazista Heidegger ispirare filosofi politicamente così distanti? E in che senso Heidegger fu nazista? E perché non ha mai abiurato? Perché si è rinchiuso in un silenzio ostinato, come si vede dal dialogo (in realtà monologo) con Martin Müller? Queste le domande inevase che il romanzo rimette in circolo.
Passano pochi anni e i militari prendono il potere in Argentina. L'Argentina avrà il suo Quarto Reich, anche se non quello immaginato dai nazisti fuoriusciti, e Martin Müller fuggirà a Friburgo, dov'era nato in tempi bui, facendo il percorso inverso di suo padre. Nella Germania pacificata degli anni settanta ritrova le sue radici, e simbolicamente getta nel fiume che attraversa Friburgo la Luger che l'aveva reso orfano. Ma senza dimenticare nulla degli orrori che dal Reno al Río de la Plata hanno attraversato il XX secolo, questo spreco di malvagità insolente.
Relativamente alla traduzione, non è stato facile riprodurre il ritmo serrato, a tratti ansimante, del romanzo, la sua intensità. Mi ha aiutato nel compito, che spero ben assolto, la passione con cui ho cercato di ricrearlo, a tratti travolto, quasi sopraffatto, dalla sua bellezza. All'ennesima rilettura, quando si va a caccia delle ultime imperfezioni per ripulire il testo nei limiti dell'im/possibile, quando insomma subentra la nausea e tra nuvole di fumo (se il traduttore è un fumatore) si raccolgono le ultime energie, e solo il senso del dovere ancora ci sostiene, e si arriva a detestare il testo, e a invocare l'editore affinché se lo porti via, risorgeva invece l'emozione, ancora viva e travolgente, fino all'ultimo tocco di penna sulle ultime bozze. Una cosa che non mi era ancora capitata. Non così, almeno. E siccome anche i traduttori, a volte, han
Alla fine del libro, una lucida e acuta postfazione a quattro mani, a firma di Antonio Gnoli e Franco Volpi, fornisce ulteriori materiali interpretativi del romanzo, sottolineando come per la prima volta la spinosa e controversa questione Heidegger sia stata oggetto di finzione letteraria.