Cosa legge Tahirih Qurratu’l-Ayn, “la poetessa di Qazvin” com’è chiamata nel romanzo? Libri certamente, ma soprattutto la verità. È questo a fare di lei una pericolosa sovversiva e, alla fine, una martire. È il coraggio di una donna che legge e che ripete la verità a scatenare l’odio che la condurrà alla morte. È questo a segnare per sempre l’esistenza di chi la incontra, di chi ne sente parlare e di chi la vede, o anche solo intravede, dietro la finestra della stanza in cui è detenuta.
Tahirih Qurratu’l-Ayn, poetessa persiana della metà dell’Ottocento, è annoverata tra i fondatori di una nuova religione sincretista, il Bahai, nata da una costola dell’Islam e dall’Islam bollata come pericolosa eresia e a tutt’oggi perseguitata.
Bahiyyih Nakhjavani, che il lettore italiano già conosce per La bisaccia (Le Lettere, Firenze 2001, traduzione di Lucia Corradini Caspani) narra la vicenda di Tahirih in una prospettiva universale. A Nakhjavani non interessano le diatribe religiose, e nemmeno in fondo l’emancipazione femminile di cui pure la poetessa è un simbolo riconosciuto, bensì l’effetto dirompente della verità.
La verità non può lasciare indifferenti. La si ama e la si segue, oppure la si odia con tutte le proprie forze. La verità non ammette veli. Perciò è insopportabile, perciò va taciuta, perciò deve essere soffocata. E soffocata muore infatti la poetessa, con quello stesso velo che secondo le accuse si era tolta in pubblico. Una simmetria simbolica così perfetta da risultare inverosimile. E invece le cose sono andate proprio così. Davvero Tahirih è stata accusata soprattutto per quel suo svelamento e davvero è stata soffocata con il suo velo.
Dalle scarne notizie sulla sua vita, Nakhjavani trae un racconto ricco di pathos, reso avvincente dall’abilità con cui adotta di volta in volta la prospettiva delle donne, le figlie, le sorelle, le mogli e le madri che sono le vere protagoniste della storia. Familiari dello scià o infime addette alla composizione dei cadaveri, pure di cuore o avide di potere, sono loro a raccontare la straordinaria vicenda di Tahirih, giovinetta dall’intelligenza lucidissima, poetessa-profetessa capace di leggere nei cuori di rozzi soldati o di casalinghe disperate, infine detenuta e martire dell’ottusità. Questa narrazione “corale”, lungi dall’appiattire i personaggi, ci regala ritratti indimenticabili di uomini e donne e un quadro a forti tinte della vita in Persia sotto la dinastia cagiara, tra inaudite violenze e corruzione dilagante.
Nakhjavani riesce a evitare il rischio dell’agiografia grazie a un uso sapiente dell’ironia che non risparmia notabili e potenti e neppure “gli indifferenti”, primo fra tutti l’ambasciatore britannico, ottusa figura di burocrate, l’immancabile, incorreggibile “Pilato” di questo copione. La nota dominante della storia è il ritmo e “tenere il ritmo” è stata anche la sfida della traduzione: inseguire il tempo di una narrazione che procede a ritroso, dalla conclusione della vicenda all’origine di tutto, ma con frequenti richiami e rimandi ai diversi momenti dell’intreccio. Un ritmo che pulsa nella scrittura e nella lingua, un inglese pulito e rigoroso ma dall’andamento musicale sinuoso… orientale.