Le Dionisiache

Argomento: Romanzo
Autore: Nonno di Panopoli
Pubblicazione: 4 maggio 2020

Nonno di Panopoli, Dionisiache: un poema per andare oltre
di Maria Maletta
Traduttrice editoriale dal greco


Nox ruit, Aenea, VI, 539

A chiunque ne legga il testo, le Dionisiache si presentano come il poema dell’oltre, capace di valicare i confini del noto e dell’esprimibile, di comporre il codice che rompe le barriere innalzate dalla tradizione per andare a fondo nella conoscenza. Interprete delle ansie che avvolgono gli uomini del V secolo nel tracollo delle strutture portanti del mondo antico, Nonno di Panopoli è attratto da un duplice mistero: il mistero che vive nel profondo della psiche umana e quello da cui l’uomo è circondato. Tra questi due poli, tra queste due realtà intrattabili si muove il pensiero dell’autore, il cui incandescente immaginario si fa strumento di conoscenza dell’universo e dell’uomo.
Il mondo in cui Nonno si trova a vivere non gli basta, non lo appaga, come non gli basta la misura della razionalità che gli appare come limite. Spostare oltre lo sguardo con duplice movimento, verso il passato fino al tempo ancestrale del mito e verso il futuro fino alla palingenesi di un’età rinnovata è necessità e desiderio.

Per questi motivi ritengo che tradurre le Dionisiache comporti una sorta di vertigine, attrazione di un vortice temporale, spaziale e semantico. È la vertigine cosmica pascoliana:

«Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi / occhi, tutta la notte, la Grande Orsa: // se mi si svella, se mi si sprofondi / l’essere, tutto l’essere, in quel mare / d’astri, in quel cupo vortice di mondi! // veder d’attimo in attimo più chiare / le costellazioni, il firmamento / crescere sotto il mio precipitare! // precipitare languido, sgomento, / nullo, senza più peso e senza senso: / profondar d’un millennio ogni momento!» (“La vertigine”, in Nuovi Poemetti, 1909).

E Nonno gli fa eco dalla sua epoca rovesciata nel futuro:

[…]
e Fetonte s’alzava […]
E, auriga audace di luminosi destrieri, levandosi in alto
mirava il cielo striato dal coro degli astri
che racchiude in cerchio le sette zone; vedeva i pianeti
e il loro opposito viaggio, e guardava la Terra posta
nel centro come un perno innalzarsi in altissime cime,
da ogni lato protetta dai venti delle sue viscere;
e mirava i fiumi e le sponde d’Oceano
che risucchia la corrente nelle sue stesse acque.
Nel mentre volgeva lo sguardo all’etere e al flusso
degli astri e alle stirpi della terra molteplici e
alla distesa
senza pace del mare, e scrutava tutt’attorno i pilastri
del cosmo infinito (Le Dionisiache, 38, vv. 308-321, vol. IV)

Il giovane e inesperto Fetonte si mette alla guida del carro del Sole, che gli è padre, e finisce col portare il cosmo sull’orlo della distruzione. Allo stesso modo «il precipitare» pascoliano è sintomo e simbolo di una dispersione che giunge al dissolvimento abissale dell’”io”.
È anche il sentimento che prova chi traduce: l’immergersi e il precipitare nell’eccesso, nel vortice delle parole e del ritmo, nell’esorbitanza di «un moto convulso e incessante», come sottolinea Dario Del Corno nell’Introduzione al III volume delle Dionisiache (p. XV).Il linguaggio cangiante e metamorfico di Nonno si sostanzia dell’accumulo e della proliferazione sinonimica offrendo a chi traduce la possibilità di un altro sguardo, l’incontro con nuovi metodi di conoscenza e di rappresentazione più adatti a una realtà che cambia senza posa e diviene sempre più complessa e inafferrabile.

Nella molteplicità delle metafore e delle antitesi Nonno va componendo il racconto delle contraddizioni del suo tempo, lo sfacelo di un rassicurante mondo passato e il fremito del nuovo, temuto e auspicato. È pure il racconto delle nostre inquietudini, del molteplice aspetto che la realtà esterna rovescia nelle pieghe dell’anima: vacilla la solida certezza che ci viene dall’oraziano regalique situ pyramidum altius, dalla «mole regale delle piramidi», dal confortante patrimonio della nostra plurimillenaria civiltà e ci investe l’enigma della società post-industriale. L’assedio tecnocratico e l’avanzata senza sosta di creature misere e sbandate ci disorientano e ci accorgiamo di quale stretta parentela esse intrattengano con le multiformi presenze nonniane:

Già vacilla la reggia di Penteo in spontaneo turbinio,
come una palla sradicandosi dalla solida base;
e si scardina la porta, crollando nella scossa
che rimescola
il suolo, presagio di sventura senza scampo (Le Dionisiache, 44, vv. 35-38, vol. IV)

ἤδη δ᾽ αὐτοέλικτος ἐσείετο Πενθέος αὐλὴ
ἀκλινέων σφαιρηδὸν ἀναΐσσουσα θεμέθλων:
καὶ πυλεὼν δεδόνητο θορὼν ἐνοσίχθονι παλμῷ,
πήματος ἐσσομένοιο προάγγελος:

Un tratto distintivo delle Dionisiache, con il quale necessariamente deve confrontarsi chi ne traghetti il testo in altra lingua, è rappresentato dal fonosimbolismo.I suoi effetti si riverberano nelle asperità sonore, in cui lo slittamento delle sibilanti e delle liquide vibranti richiama il crollo del palazzo del tirannico Penteo. Così Nonno evoca anche per noi il segno della dissoluzione di un potere superbo creduto fino ad allora inattaccabile. Nello sgretolarsi di cose e certezze si insinuano il presagio della fine, il disfacimento del “corpo del re” e il vanificarsi di simboli atavici. Ed è allora il trionfo di Dioniso, del dio in sembianze di straniero, ospite non atteso e non accolto, il dio dalla duplice nascita e dal volto ambiguo, crudele e pietoso.
Nell’altalena oscillante tra rovina e rinascita, tra fine e principio la tecnica mimetica delle Dionisiache permette di indugiare anche su sonorità armoniche che nel susseguirsi delle nasali e delle liquide veicolano l’ebbrezza della distanza:

Così dicendo lo persuase e con i sandali alati l'ardente
Eros, agitando i piedi rapidi come vento,
tra le nubi imprendibile solcava il cielo
e l'arco reggeva, fiammante; sulle spalle
pendeva la faretra ricolma di dolce fuoco. (Ivi, 42, vv. 1-5)

La potenza visionaria dell’immagine è catturata dall’aggettivo «imprendibile» (aèki@chtov) ricorrente nelle Dionisiache. Si preannuncia qui la vanitas che pervade la letteratura barocca di tutta Europa, l’ “irreparabil fuga” di Giovan Battista Marino che nell’Adone attinge copiosamente al poema di Nonno. Nella danza timbrica di vocali e consonanti già si ode la melodia contrappuntistica di Henry Purcell che con The Fairy Queen (1692) richiama in chi ascolta la suggestione onirica di molti scenari delle Dionisiache.
La consapevolezza della caducità si intreccia con l’intensità del desiderio che nel poema assume varie forme: dall’eros fisico che incalza con urgenza allo struggimento malinconico sino allo slancio profetico dell’attesa.
Chi traduce si mette allora in ascolto delle voci del Simposio platonico, distingue nitida l’eco del dolente mutarsi di tante figure ovidiane, sino alla muta invocazione dell’Orfeo rilkiano: Diese So-geliebte.
Tradurre le Dionisiache permette di scoprire la vitalità di un linguaggio poetico che si credeva esaurito già in epoca ellenistica, di confrontarsi non solo con la summa di un sapere enciclopedico ed erudito – come dai più il poema è ritenuto – bensì pure e soprattutto con il progetto di una autentica rigenerazione che parla alla nostra contemporaneità.
Il cosmo infranto della crisi del paganesimo si ricompone nell’estetica del “passaggio”, nell’incessante trascolorare dei fonemi e delle immagini che ci restituiscono un intero universo letterario e ci sollecitano a confrontarci con l’angoscia e con le possibilità di redenzione che l’umano offre a se stesso mediante la creazione poetica.