Il rovescio dell'arazzo: dietro la scrittura di Apuleio
di Stella Sacchini
Traduttrice editoriale e scrittrice
“Così raccontava alla fanciulla quella vecchia pazza e ubriacona. E io lì vicino mi rammaricavo, perbacco! di non avere con me carta e penna per scrivermi una così bella favola” : siamo all’inizio del capitolo 25 del libro VI e la bella fabella di Amore Psiche è appena finita. A narrarla è stata la vecchia nella grotta-covo di una banda di briganti dove sono tenuti prigionieri l’uomo-asino Lucio e Carite, appena rapita ai familiari e strappata alle nozze imminenti con il fidanzato Tlepolemo. Non a caso la fabella è definita bella: è piacevole da ascoltare, certo – la vecchia governante la racconta proprio per distrarre la povera Carite, impaurita e stremata –, talmente piacevole che l’uomo-asino è tutto orecchie nell’ascoltarla, dispiaciuto solo di non avere “stilo e tavolette” (come invece traduce Alessandro Fo) per appuntarla viva voce; ma è bella anche perché di bellezza parla e dalla bellezza muove: quella di Psiche, che è causa dell’invidia di Afrodite e motore dell’intera vicenda; quella della dea, proverbiale ma insidiata da una bellezza “illecita” ; quella di Cupido, di Amore, vietata allo sguardo dell’amata, preclusa a ogni sguardo umano; e quella metaforica, filosofica, platonica, che è stimolo e viatico per l’anima nel suo viaggio verso il divino.
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Se la bellezza è caratteristica che accomuna umani e numi ed è tra loro oggetto di contesa, la curiosità è attributo solo umano. Il sostantivo curiositas e l’aggettivo curiosus occorrono diverse volte nella favola, sempre in riferimento a Psiche: nel capitolo 6 del libro V Amore la ammonisce dicendole che la sua “curiosità sacrilega l’avrebbe trascinata giù da quel piedistallo di beatitudine, via, lontana dai baci soavi e dalle carezze del suo sposo” , e più avanti (V 20), quando si è ormai fatta convincere dalla sorelle invidiose, Psiche fa riferimento al peccato di curiosità che le rimprovera il marito (“e minaccia immani sventure se non mi tolgo la curiosità di vederlo in faccia” ). Nemmeno di fronte al volto divino del suo amato riesce a saziare la sua curiosità. Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa: Psiche è un’anima insaziabile e curiosissima. È questo il punto in cui la sua curiositas raggiunge l’apice e allo stesso tempo travalica anche quell’apice, a dimostrazione che niente mai sazierà definitivamente la vera curiosità, che non si ferma quando raggiunge l’oggetto del proprio indagare, ma da quel traguardo trae nutrimento e fame al tempo stesso. Nutrendosi s’affama, in un processo senza fine. Il momento apoteotico è sottolineato dalla grande ricercatezza formale del passo: Apuleio fa un raffinatissimo gioco interlinguistico affiancando al nome Psiche (psyché vuol dire anima, in greco) il sostantivo animo, che ne è appunto la traduzione latina. Per definire l’anima utilizza l’aggettivo insatiabilis, che nel resto delle Metamorfosi ha sempre una connotazione negativa, ma qui richiama, in filigrana, il mito della biga alata narrato da Platone nel Fedro.
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Contemplando la bellezza fisica l’anima umana ritrova le sue ali e può tornare verso l’iperuranio: per questo non è mai “sazia” di bellezza, e in lei la curiositas non si assopisce mai. A proposito di insaziabilità, Apuleio in queste righe dà prova di tutta la sua abilità linguistica e incastona il precedente gioco interlinguistico (animo Psyche) in un altro gioco di parole, come in una matrioska: insatiabili animo Psyche, satis et curiosa: qui satis è usato nel senso di “molto” (quindi “molto curiosa”, “curiosissima”), ma se lo intendiamo anche nel suo significato avverbiale più comune, cioè “abbastanza”, crea un divertente contrasto con l’aggettivo insatiabilis, riferito all’anima. E non è finita qui. Leggiamo come prosegue la descrizione della curiositas di Psiche: rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma. L’allitterazione della m e l’assonanza della a accompagnano un altro geniale gioco di parole, un altro tipico pun apuleiano: l’anagramma. Rimatur e miratur sono l’uno l’anagramma dell’altro. Rimor significa “scrutare”, “esplorare” (per vedere se c’è una crepa, una fessura, e quindi osservare con grandissima attenzione ogni dettaglio), miror “ammirare”, “contemplare con ammirazione”: entrambi pertengono alla sfera della vista, l’uno con il riferimento alla profondità e scrupolosità dello sguardo, l’altro alla meraviglia che viene dall’oggetto guardato. Tutta questa densità semantica lo scrittore la rende trasferendola anche nel suono, con le assonanze e le allitterazioni, e affidandone la potenza al gioco alchemico della permutazione di lettere e sillabe che è l’anagramma. Rendere tutto questo in traduzione è, ça va sans dire, quantomeno arduo. Si è cercato di rendere la ricchezza sonora dell’originale con assonanze (anima, curiossima), con l’allitterazione della s (Psiche, insaziabile, curiosissima, sfiora, se), della m e della r (anima, curiosissima, mira, rimira, armi, marito, sfiora, polpastrelli, rigira, freccia, faretra), conservando la vicinanza tra animo e Psyche (“Psiche, anima”) e rendendo l’anagramma con “mira e rimira”, due verbi che esprimono l’uno il guardare con meraviglia, il contemplare e l’altro il guardare con attenzione e insistenza: il secondo contiene il primo e lo riafferma (con quel ri- che allude anche al fatto che l’oggetto della visione è talmente bello, talmente meraviglioso che non basta un solo sguardo, ma richiede una contemplazione reiterata, un ritorno che contiene in sé il seme del desiderio). Il corpo sonoro di quest’azione doppia – in traduzione i verbi che la esprimono sono vicini rispetto a rimatur e miratur, che invece sono separati l’uno dall’altro da cinque parole – è inoltre sorretto dai sostantivi seguenti, “armi” e “marito”, che contengono a loro volta un anagramma interno (armi/mari): per una volta l’italiano ha qualcosa in più rispetto al latino (mariti e arma > mar/arm), quella i che allittera con “mira e rimira”, creando un gioco di echi sonori all’interno della frase.
Basterebbe questa sola frase per capire che ci troviamo di fronte a un virtuoso della parola e a un giocoliere del senso che scrive per suscitare nel lettore piacere, stupore e ammirazione per la sua straordinaria abilità espressiva. È di certo “l’autore che più si inerpica su giochi di parole acrobatici, sofisticati, e di conseguenza molto elusivi”, per dirla con Monica Longobardi . E di certo chi si trovi ad affrontare l’impervia impresa di tradurlo nella propria lingua dovrà arrogarsi il diritto e la libertà di “duettare” con lui e prendere parte senza troppo pudore né timidezza alla grande “festa dell’intelligenza” della sua scrittura, preoccupati di conservarne la vitalità, l’inventiva, i funambolismi, di restituire una scheggia di tutto questo più che l’interezza del senso, frammenti e barlumi di vita – di anima – più che un corpo intero, ma inanimato. Chi si trovi a tradurre questa lingua indomabile e cangiante dovrà lasciarsi alle spalle il fantasma della fedeltà e correre molti rischi, sporcarsi le mani, fallire sempre meglio, essere disposto a tutto pur di salvare qualche scheggia. Porsi sotto l’insegna di Vertumno, dio delle mutazioni , ed esercitare con tutta la propria audacia e umiltà la più metamorfica delle arti, quella della traduzione.