C'è un lungo tunnel, un percorso obbligato quando si sceglie la via più breve per raggiungere il Lussemburgo dall'Italia e viceversa. Un tunnel che in ogni luogo di passaggio unisce e separa due mondi, nello spazio e nel tempo. Ma che li può anche trasformare in realtà fluttuanti in cui il prima e il dopo, il qui e l’altrove rischiano di perdersi - nella memoria e nell'immaginario - in una deriva senza ritorno. O in un mondo spaccato inesorabilmente in due.
Quando per esempio la storia inizia con un biglietto di andata semplice, come per quei nonni che, spinti dalla miseria delle campagne abruzzesi, avevano deciso di seguire l'esodo verso la terra promessa che all'epoca non si chiamava solo America ma anche Differdange, grazie al ferro di cui il suo sottosuolo rigurgitava, illudendosi di poter barattare l’inferno con il paradiso. Decisione dalle conseguenze incalcolabili e scatenerà una valanga di sacrifici, rinunce, ripensamenti, delusioni. Il viaggio, sempre di andata semplice, col tempo comincerà allora a sdoppiarsi senza tregua: un giorno si deciderà di ritornare in Italia, ci si fermerà un po’, poi si tornerà in Lussemburgo. i figli faranno lo stesso, i nipoti pure. La grande avventura sembrerebbe potersi ripetere all'infinito, ma il tunnel diventa sempre più lungo, la permanenza laggiù sempre più breve. Finché non rimane che l'immagine del viaggio, mentre il viaggio si è già concluso da molto tempo.
È il tunnel, con quel passaggio nel suo ventre buio, diventa allora luogo mentale di ogni spaesamento per chi, anello sospeso di una catena interrotta, intraprenderà un altro tipo di viaggio, necessario alla lacerazione sofferta ma non solo, una sorta di percorso iniziatico, di attraversamento dello specchio che consentirà, forse, il recupero della memoria, la ricostruzione del senso, la consapevolezza. Nel buio del tunnel, come nel ventre della balena Mrs Haroy e di tutte le altre che, innumerevoli e insospettabili, guizzano con destrezza e s’incrociano lungo il percorso di questo itinerario romanzesco - da Moby Dick a quella, immancabile, travestita da pesce-cane delle avventure di Pinocchio - in una sorta di balenologia sui generis densa di informazioni e citazioni sulla realtà e sui miti che da sempre le circondano, matura la coscienza e può elaborarsi la scrittura.
Metafora, quella della balena, che percorre (precorre?) e anima il romanzo, ma anche storia concreta a pretesto (pre-testo?) del narrare. Di una balena che, avvenimento del tutto straordinario, nel febbraio 1953 fu esibita in carne ed ossa con la bocca spalancata, morta beninteso imbalsamata, su un lungo vagone ferroviario della stazione di Lussemburgo. Catturata e uccisa qualche settimana prima al largo di Cap Haroy, aveva assunto il nome di quel luogo e veniva chiamata Mrs Haroy. Prima e dopo la sua tappa nel Granducato, il cetaceo farà il giro dell'Europa. La letteratura lo testimonia qua e là, in particolare in Svizzera, dove - come ricordava Ismail Kadaré nella prefazione alla seconda edizione del romanzo - la balena avrebbe persino cambiato sesso trasformandosi in Mr Haroy.
Jean Portante, come Claudio Nardelli, il narratore, aveva solo tre anni l'epoca in cui la folla affluiva alla stazione per vedere la nuova arrivata. Sarà stato anche lui tra i curiosi? O forse avrà solo sentito parlare in seguito della balena, da suo fratello, per esempio, maggiore di lui di tre anni, tre anni o poco più? L’avvenimento, in tutti i casi, gli lasciò una così viva emozione che rimase impresso in maniera indelebile tra i suoi ricordi d'infanzia. La storia della balena esposta in quelle fredde giornate d'inverno alla stazione di Lussemburgo, e forse addirittura a Differdange, si sarebbe sedimentata nella sua memoria per una ragione che il narratore ci fa capire chiaramente, il suo personale destino di figlio di emigrati italiani. Un destino che lo identifica a quello di tutti i migranti ed esiliati, perché Mrs Haroy, la balena aveva appunto conosciuto la stessa sorte.
Così nel romanzo riescono a fondersi in modo apparentemente spontaneo due dimensioni che in letteratura non sempre si armonizzano facilmente: da un lato l'aspetto simbolico, la metafora, in questo caso la balena, e dall'altro il dramma immenso, che si consuma in una serie innumerevole di fatti, episodi e cronache, e si traduce nella lacerazione dell’emigrazione. Analogamente al cetaceo, i personaggi, in particolare il narratore e i suoi, sono in qualche modo sdoppiati: hanno due nonni, due luoghi, due memorie, due (o più) lingue. Come la maggior parte dei migranti, cui il mondo appare inesorabilmente scisso, si trovano spesso nella situazione del né questo né quello, né italiani né lussemburghesi, pur essendo e l’uno e l’altro. Come la balena, che non è pesce pur vivendo nel mare, né animale terrestre benché sia dotata ancora dei suoi polmoni originari. Mammifero assurdo provvisto di pinne, in esilio nelle acque come sulla terra.
Sulle onde fragili della memoria affiorano così le partenze e i rientri - anche quelli solo vagheggiati – dall’estero (ma qual è, l’estero?), la vita di paese a San Demetrio in Abruzzo fino agli anni cinquanta, segnata da fascismo e antifascismo, guerra e resistenza, e al contempo il bassin minier lussemburghese, con le sue fabbriche e le sue miniere, il lavoro e le sue tragedie, le esperienze, i ricordi e le nostalgie che la nuova vita a Differdange comporta. All’interno di una famiglia, divenuta nel frattempo un’autentica torre di Babele, dove gli uni parlano italiano, gli altri lussemburghese e tutti più o meno francese, con uno spartiacque netto tra il padre e il figlio maggiore, che optano per un’acculturazione rapida, totale, addirittura esaltante, e la madre la più legata – come spesso accade per le figure femminili in analoghi contesti – al paese natale e alla sua lingua) che si ostina a vivere l'emigrazione come provvisoria, anche se è sempre più chiaro che si tratta di una condizione che si fa via via provvisoriamente definitiva. Mentre il figlio più piccolo, Claudio, alias Claude alias Clodi, dilaniato tra due dimensioni inconciliabili, osserva dal no man’s land di quello che ineluttabilmente sta trasmutando in un destino definitivamente provvisorio. Sentendo che il tempo, come un rullo compressore, si porta via le cose, che nel tunnel delle Alpi pezzi interi di memoria svaniscono. Che egli stesso, che non è già più quello di prima anche se non è ancora un altro, è adesso più solo, come Mrs Haroy esposta alla stazione, che incarna lo stadio supremo della solitudine.
Ritornato, adulto, sui luoghi dell'infanzia, irriconoscibili ormai, il narratore cercherà ogni possibile appiglio, colori, odori, sapori, gesti, immagini che l'assenza ha totalmente sconvolto o stemperato, per ricostruire un passato, soggettivo certo, personale e collettivo insieme, e per scrivere il romanzo di questa ricerca che è anche uno ritrovarsi. La lontananza si tinge d'azzurro, affermava Leonardo, azzurro che sfuma i colori, ricompone i contrasti, ammorbidisce ogni cosa. Quasi un richiamo ante litteram agli oceani in cui fluttuano le memorie millenarie delle balene. La nostalgia - neologismo latino relativamente recente, dai termini greci nostos e algos, che definiva nel ‘600 una malattia ritenuta incurabile - può trasformare allora il passato, abbellirlo, mitizzarlo, ridurlo a un paradiso perduto, un rimpianto sterile. Il rischio è perennemente in agguato. Ma Itaca - è noto – più che nel luogo del ritorno si svela ad Ulisse nei vent’anni dell’erranza. Così il tema insidioso della nostalgia si elabora, per l'autore del romanzo, in una tensione lucida e feconda, il verbo ritornare non significa più “tornare indietro”, quanto piuttosto “tornare ancora”, quello che importa non sono tanto i luoghi quanto il percorso che li separa (e i fili invisibili che li congiungono). Per dire che – riprendendo la metafora della balena – imprigionarla in un solo luogo significherebbe ormai soffocarla.
Ci si potrebbe anche chiedere, allora, come finiscano le storie di balene. Seguendo il racconto di Giona – che il testo riprende nelle innumerevoli rivisitazioni letterarie - al suo ritorno sulla terra, uscito indenne dalle fauci dell’enorme animale marino che lo aveva inghiottito, gli uomini non possono che cambiare opinione riguardo a quei mostri apparsi fino ad allora temibili e insaziabili. La balena entrerà così a poco a poco nella storia degli esseri inoffensivi. I ruoli si invertiranno e da cacciatore diventerà preda. Perseguitata, uccisa per essere sfruttata. Come sfruttato, catturato, ucciso può essere l’uomo in un universo senza pietà. Perciò l'orizzonte del romanzo, in cui la balena assurgere a simbolo della precarietà del mondo e della specie – simbolo e monito – non può non tingersi di ansietà rispetto ai destini umani e animali che da sempre li accompagnano. Difficoltà materiali, sofferenze morali, conflitti, persecuzioni, che hanno segnato forse più di ogni altro il secolo che si è da poco concluso (e continuano a segnare la nostra realtà presente). Drammi che comportano, come per le balene, spostamenti e sradicamenti e che partecipano, con l'antico tormento che chiamiamo esilio, dell'essenza stessa della vicenda umana.
In questo narrare generoso e proteiforme, in cui l’imperitura poetica delle balene si affianca alla prosa severa e perenne della migrazione, anche la sintassi lievita, le frasi si agglutinano e si espandono in forma concentrica, a spirale e si riflettono e si moltiplicano come in un caleidoscopio, come se dall’oscurità del ventre del mostro la candela oscillante intravista da Pinocchio desse luce forma e vita ai recessi più nascosti dell’anima. Immagini fluttuanti, effimere, fallaci forse, sulla cui affidabilità s'interroga la voce narrante di un io adulto (o più d'uno?) che sceglie di guardare il mondo con gli occhi ingenui e pensosi, ma anche teneri e divertiti di un bambino. La scrittura sapientemente si scioglie in una lingua, la strana lingua, come ama definirla l'autore, étrange langue che è straniera e straniante a un tempo, una lingua che marca consapevolmente la distanza, che va a sovrapporsi, a interpretarne un’altra, originaria, inevitabilmente straniante anch'essa. Una lingua che già in sé una prima originale traduzione di qualcosa che precede, a cui dà corpo e voce, testimone visibile di una perdita avvenuta, ma al contempo assunzione piena, e felicemente risolta, di un modo altro di abitare il mondo.
Il viaggio si è consumato anche nel passaggio da una lingua all'altra, in una sorta di autotraduzione che non si limita unicamente alla parola e che accomuna migranti ed esuli sotto ogni latitudine. Inclusa quella della letteratura che vi annovera peraltro molti fra i suoi più bei nomi. Si tratta di un processo che l'autore chiama effaçonnement, con un pregnante neologismo volutamente intraducibile per dire della necessaria traversata in cui, come per la balena, il corpo originario in qualche modo si cancella ma anche che, conservando i polmoni, l’essenza sopravvive e può ricostruirsi, pur tra le mille insidie che il nuovo habitat comporta.
Forse per questo a chi scrive piacerebbe ora poter pensare di aver almeno sfiorato, nella versione italiana di un romanzo che esprime, fin nella forma che la lingua assume, il dramma eterno del confronto con l’alterità, - ma che pure non tace l’impatto con quell’altrove che storicamente ha coinvolto milioni d’italiani (ed è un dramma che ci riguarda e ci interpella ancora oggi nella sua attuale versione tutta speculare all'antica) - aver almeno sfiorato, dicevamo, l'originale vero, quello che ha preceduto la scrittura, quello di quando tutto ha avuto inizio. Perché, come ci ricorda l’autore, possiamo dire albero in quasi tutte le lingue, ma se l’albero dell’infanzia era un mandorlo che battevamo con una lunga pertica per farne cadere i frutti, ciò significa che si è impressa dentro di noi un'immagine preziosa, traducibile solo per chi evocando l’albero può condividere quel mondo.