A gennaio del 2006 avevo incontrato Kym Ragusa in un piccolo caffè nella Upper East Side di Manhattan, dove Kym, su mia richiesta, mi aveva portato le bozze del suo memoir, The Skin Between Us, che sarebbe uscito da lì a qualche mese. Da quando ho cominciato a collaborare con la casa editrice Nutrimenti al progetto di riportare a casa le scrittrici italoamericane traducendone i testi in italiano, penso costantemente a ciò che potrebbe risultare interessante per un pubblico italiano. La mia curiosità mi sospingeva verso il primo libro di Kym Ragusa, di cui da tempo ero in attesa ma di cui ancora non sapevo assolutamente nulla. Conoscevo bene, però, il lavoro di questa autrice, come regista e come scrittrice di saggi memoiristici, e trovavo la sua voce straordinariamente eloquente: sempre piena di profonda umanità, una voce mai urlata eppure allo stesso tempo così piena di forza e determinazione. Conoscevo le tematiche che emergono dalle sue narrazioni – che ruotano intorno ai molti conflitti legati alle sue origini birazziali – molto attuali non soltanto negli Stati Uniti con Barack Obama, ma anche in Italia, dove il discorso sulla razza e sul razzismo degli italiani è rimasto sopito per molto tempo e solo di recente, stimolato dalla presenza di un crescente numero di immigrati sul nostro territorio nazionale, è tornato in superficie, ristabilendo in questo modo una connessione tra il presente del nostro paese e il suo passato di emigrazione e di colonizzazione.
Nel memoir La pelle che ci separa (tradotto insieme a Clara Antonucci) la storia personale di Kym Ragusa, figlia di una donna afroamericana e di un uomo italoamericano, si fonde con la storia di due comunità in continuo conflitto: due comunità a cui lei non sente mai di appartenere completamente – troppo nera tra i “bianchi”, troppo bianca tra i neri – due mondi tra cui lei, novella Persefone, non può che fare la spola per tutta la vita. Attraverso la propria memoria personale Kym Ragusa ricostruisce la memoria storica delle sue famiglie d’origine, dando voce in questo modo alle storie della gente comune e degli immigrati che di solito non vengono incluse nella Storia (con la S maiuscola). I suoi racconti, inoltre, sono spesso anche un recupero del passato nazionale italiano: quando ad esempio Ragusa racconta di processioni e riti religiosi che le sue progenitrici italiane avevano portato con sé dal vecchio mondo, il suo ricordo personale restituisce ai lettori italiani anche un pezzo del loro passato rielaborato a seguito della migrazione. Per fare ciò l’autrice si avvale spesso dell’italiano o del dialetto siciliano-calabrese; ma lo fa rifiutando ogni concetto di purezza linguistica e mantenendo invece gli errori di quelle varianti “transatlantiche” della lingua italiana e del dialetto utilizzate dalla sua famiglia di origini contadine, che profondi processi di trasmigrazioni e transculturazioni avevano reso così diverse dalla lingua italiana standard e dai dialetti parlati in Italia.
Questo memoir di Kym Ragusa si chiude con il suo viaggio in Sicilia, luogo da cui la sua famiglia italiana era partita molti anni prima, e questo viaggio in qualche modo costituisce per l’autrice un ritorno a casa, così come un ritorno a casa è anche la traduzione di questo testo nella lingua che era stata dei suoi antenati. Pubblicare i testi delle autrici italo americane in italiano è un modo di ripercorrere a ritroso il viaggio della migrazione e di riportare in Italia parte di quella ricchezza culturale italiana dispersa in giro per il mondo a seguito delle molte emigrazioni. La pelle che ci separa, dunque, fa parte del patrimonio letterario italiano ma anche di una culturale transnazionale, che prende forma proprio in questo andare avanti e indietro tra mondi, culture e linguaggi diversi.