Elena Boč’orišvili è georgiana, scrive in russo e vive in Canada. Nonostante i suoi libri siano tradotti in alcune lingue europee, nella versione originale non sono ancora pubblicati. Ma questo aspetto non è certo insolito per uno scrittore emigrato né lo è il fatto che narri soltanto della sua terra e della sua gente escludendo il paese straniero in cui vive. I romanzi di Elena Boč’orišvili descrivono infatti la quotidianità georgiana sullo sfondo del collasso dell'Unione Sovietica e delle atrocità della guerra civile purtroppo ritornata attualmente alla cronaca.
L'originale russo su cui è stata condotta questa traduzione è un dattiloscritto di 38 pagine in tutto, copertina di cartoncino verde cetriolo rilegatura a spirale. Le pagine di un formato particolare, quasi quadrate, sono battute a interlinea e margini larghi. I numeri dei capitoli scritti a mano.
A discapito della veste così dimessa, Opera è un romanzo sapiente nello stile e nell’intreccio, poche righe, scarne, ma tese come filo spinato.
Lo stile conferma il tratto inconfondibile di questa autrice: una prosa fatta di frasi brevissime, spezzate, che hanno però la capacità di indurre nel lettore molte più informazioni di quelle esplicite e che spesso si concludono con similitudini inattese e pregnanti. Così quando leggiamo: “Le vecchie si mettevano le galosce. Nere e splendenti come macchine governative” vediamo con immediatezza l’inverno, le strade impraticabili, il lucido metallizzato delle galosce insieme alla fotografia sinistra e marziale di una società gettata nell’entropia. Certamente una scrittura che adotta due tra le categorie indicate da Calvino per la letteratura del Millennio: la leggerezza, asciuttissima, e la visibilità, icastica.
La magia più sorprendente di questo romanzo minuscolo e poderoso è il transito tra il realismo più crudo e l’allegoria. C’è un celebre racconto di Puškin, La tormenta, paradigma di precisione e brevità, dove l’immagine del corvo in epigrafe annuncia l’inevitabile sviarsi del destino umano: “Un corvo nero, sibilando con l’ala / Volteggia sulla slitta; / Il gemito profetico annunzia tristezza!” Anche in Opera il simbolo sembra determinante, per non dire deterministico. Il presagio funesto del corvo appollaiato sulla croce della chiesa si ribalta in una meccanica di azioni che con atroce precisione balistica produrranno la tragedia vera. La realtà storicizzabile si determina nei sogni, indizi di cui è disseminato il romanzo. L’albero che cresce nel bel mezzo della casa e sbuca fuori in una fioritura di bacche incarna questa intrusione del simbolico nel reale. Il protagonista sta scrivendo e componendo un’opera che fatalmente anticipa le vicende della sua vita, ma non sappiamo se è preveggenza o predeterminazione. La dimensione reale e quella simbolica trovano infine congiunzione esemplare nella dimestichezza del protagonista con la morte che è sempre evento reale e allegorico, funzionale e cerimoniale. Così la condizione oltremondana soggiace a pratiche e burocrazie tristemente terrestri, all’interrogatorio asettico dei funzionari nei loro uffici dell’aldilà.
Stile e intreccio sono a binario unico nella prosa di Elena Boč’orišvili. Su questo binario si transita dal terrestre al celeste, dal fatto all’emblema, dalla storia alla fatalità, sempre con un movimento pendolare che prevede andate e ritorni, scambi e inversioni. Come il nome Ija che rimanda al greco “viola” e si declina materialmente nelle violette che per tutto il romanzo sbocciano a pié pagina.
Tradurre questa scrittura significa letteralmente spellare la frase cioè lasciarla a carne viva, che sia visibile la ferita, la traccia, l’indizio che conduce il lettore a chiudere il cerchio. La maggiore difficoltà è riprodurre l’esatta cadenza delle frasi minime, dotate di una forza radiale, una propulsione allusiva nella quale non solo è riposto il significato, ma anche lo sviluppo della trama e la pittura della storia, dei luoghi, dei protagonisti.