Non ricordo più quale autore ha detto, o scritto, una frase che suona più o meno così: "Se in un romanzo si parla di un chiodo, state pur certi che prima o poi qualcuno, a quel chiodo, s'impiccherà..." Potremmo dire che Gaétan Soucy è lo "scrittore del chiodo" per eccellenza. Lo scrittore che ha fatto del "chiodo" la sua tecnica narrativa. Con una spavalderia che rasenta l'incoscienza, Soucy dissemina i suoi romanzi di termini e di espressioni che, in prima istanza, lasciano il lettore esterrefatto.
Nelle pagine iniziali del primo libro tradotto in Italia, La bambina che amava troppo i fiammiferi (Marcos y Marcos, 1998), per esempio, leggiamo: "essendo io il segretariano quel giorno, avevo il diritto d'indugiare a uscire dal letto dei campi dopo una notte all'addiaccio e mi ero appena messo a tavola davanti all'incunabolo quand'ecco che fratellino scende da basso" e, poco dopo: "Quanto al Giusto Castigo, se ne stava nel suo cantuccio, ridotto a mucchietto. Non era quasi cambiato negli ultimi anni, veniva spostato con cautela, lo si tirava fuori dalla sua cassetta soltanto tremando". "Segretariano", "incunabolo", "Giusto Castigo" sono alcuni dei "chiodi" di cui parlavamo poc'anzi. Se, davanti a "segretariano", il lettore ha pensato: "Peccato, un errore di stampa proprio in prima pagina...", l'"incunabolo" (seguito poco dopo da "rotolo") lo indurrà a figurarsi una biblioteca, un convento dove i due fratelli vivono. Tanto più che, in apertura di libro, ci si trova immersi in un universo atemporale che non sapremmo situare in un'epoca, perlomeno fino a quando non vedremo comparire una falciatrice, una motocicletta... Insomma, la tecnica di Soucy, molto rischiosa, è quella di sfidare il lettore. Come se a lui, autore, importasse poco o nulla di chi, scorse che ne abbia le prime pagine, riporrà il suo libro in un cantuccio... Forse non sarebbe azzardato avanzare l'ipotesi che questo autore canadese di lingua francese si scelga in partenza i propri lettori: il lettore svogliato o poco motivato (e ignaro della "teoria del chiodo") butti pure via il suo libro e passi allegramente all'ultimo bestseller delle classifiche di quotidiani o rotocalchi; potrà anche illudersi d'aver fatto una scelta; non sarà mai nemmeno sfiorato dal sospetto d'essere stato, invece, selezionato. Tanto, questo è proprio il tipo di lettore che, di Soucy, non avrebbe mai apprezzato le sottigliezze linguistiche, i giochi di parole, la comicità che riesce a farsi strada anche nel cuore della più cruda delle tragedie. Sì, Soucy è uno scrittore esigente, pretende molto dai suoi lettori. Se riprendiamo l'incipit del libro: "Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l'universo in mano una mattina poco prima dell'alba perché papà era spirato all'improvviso", ci rendiamo conto che occorre una mente assai perspicace per capire d'emblée (da quell'"universo" buttato lì con noncuranza) che La bambina che amava troppo i fiammiferi è molte cose (come le tante recensioni hanno evidenziato), ma è in primo luogo (e nessun recensore se n'è accorto, anche se confidiamo nei lettori degni di questo nome) un romanzo sulla morte di dio... Inutile dire che soltanto leggendo il romanzo sino in fondo tutti quei "chiodi" sveleranno la loro ragion d'essere... Il secondo romanzo proposto ai lettori italiani (Music-hall!) non si discosta, tecnicamente, da quanto detto sopra: già immaginiamo la perplessità di chi si troverà sotto gli occhi la frase: "Mettendosi seduto sul letto, si rese conto che era piombato nel sonno senza allentare le tavolette di sua ingegnosa concezione". Ma Soucy, lo ribadiamo, esige un lettore paziente, che sappia procrastinare il piacere (grande) della Scoperta e godersi, nel frattempo e nell'attesa, i tanti piccoli piaceri e le tante piccole trovate di cui dissemina i suoi romanzi (o, per dir meglio, il suo romanzo, giacché possono cambiare i personaggi e le epoche, i contesti e i contenuti, ma ci sembra di poter dichiarare fin d'ora che, come tutti i veri e grandi scrittori, Soucy è autore di un solo libro). Anche Music-hall! è, teatralmente parlando, una "tragedia" attraversata per tutta la sua durata da una vis comica irresistibile, o, a scelta, una "commedia" di cui la vis tragica dell'autore smorza i tratti più drammatici; anche in questo romanzo c'è l'ossessione (e l'incertezza) dell'identità sessuale del protagonista o la spasmodica ricerca di un'identità tout-court. C'è lo stesso ricorso al surreale: animali che, come la ranocchia Strapiciacudù, oltre che parlare, cantano e ballano oppure sono, come la struzza Scarlotta, "psicanalisti"... Con qualche tratta, perfino, "alla Dalí": il lettore che, leggendo il brano "Dal muro usciva un tubo di gomma da cui colava costantemente un filo d'acqua smorta. L'acquaio, macchiato di cerchi rugginosi, si trovava un po' a sinistra al di sopra del letto. Quel filo d'acqua, inesauribile, inarrestabile, per tutta la notte metteva addosso all'apprendista la voglia di svuotarsi il rubinetto", abbia pensato a una metafora, si sia detto che quel "rubinetto" è un eufemismo (ma nella "grammatica" di Soucy reticenza e censura non esistono) dovrà ricredersi... Se, nel primo romanzo, la comicità (una comicità comunque sempre maligna, per non dire malevola) era per lo più diluita nel testo, in Music-hall! essa diventa preponderante, "abita" interi capitoli (esilaranti il dialogo dell'apprendista Xavier, il protagonista, con un giovane pazzo nel giardino di un manicomio, o i tanti scambi di battute col "cieco che abita in un vicolo cieco"). Perché, se c'è una differenza tra i due romanzi, è che in questo secondo tutto è di più ampio respiro, dilatato, forse proprio perché il primo doveva instillare nel lettore la sensazione di chiusura, di asfissia, di quell'universo orbato di dio (un dio da scrivere comunque con la minuscola, un dio "laico", pieno di difetti e di miserie), mentre qui l'"universo" è la sterminata, crudele, cieca e avventata America, che, nella sua mania di grandezza, nella sua smania di non privarsi di nulla, tenta di fabbricarsi un (mostruoso) "redentore"...