Secondo l'interpretazione cosiddetta "obliqua" di Machiavelli - condivisa, tra gli altri, da Spinoza come da Rousseau, e in voga fino al romanticismo - il segretario fiorentino avrebbe finto di dare consigli al principe per "sfrondarne gli allori" e svelare "alle genti di che lacrime [il potere] grondi e di che sangue", per dirla con Foscolo.
Qualcosa del genere fa Eça de Queirós ne Il Conte di Abranhos, anche se nel caso specifico il potere non gronda lacrime, né sangue, bensì piccinerie e meschinità assortite.
L'io narrante del romanzo è il segretario del conte, che alla morte di quest'ultimo ne scrive le memorie. La sostanza della narrazione è tutta antifrastica, ironica; la prospettiva del segretario è interamente rovesciata rispetto al buon senso comune, e laddove egli esalta gli eroismi del conte il lettore ne vede sempre più ingrandita la meschinità. Usando tale ingegnosa chiave, l'autore fa un ritratto impietoso della politica portoghese di fine Ottocento: trasformismo, incompetenza, corruzione, liberalismo svuotato di senso, carità pelosa, tatticismo meschino, arrivismo sfrenato. Quest'ultimo è il tratto caratteristico della personalità del conte, una sorta di Bel Ami in versione rustica. "Tengo famiglia", sembrerebbe il motto di Abranhos, che si muove in una situazione "tragica ma non seria", in cui tutti sono pronti "a correre in soccorso del vincitore". Sì, il romanzo sarebbe piaciuto a Ennio Flaiano.
Il testo è punteggiato di citazioni letterarie, pieno di versi decisamente mediocri e sdolcinati che il segretario (naturalmente) esalta; attraverso quest'ennesimo espediente antifrastico, l'autore irride buona parte della letteratura "ufficiale", coeva e non. Gli autori presi indirettamente in giro sono o direttamente citati coi loro nomi, oppure attraverso trasparenti allusioni.
In tale universo di mediocrità diffusa, i rappresentanti del clero non rappresentano affatto un'eccezione, anzi sono pienamente organici all'ambiente socio-politico descritto.
Insomma, ce n'è abbastanza per intuire perché il romanzo, annunciato nel 1879 sulla prima pagina del quotidiano portoghese Diário de noticias come imminente, non abbia invece mai visto la luce e sia stato pubblicato postumo nel 1925, ossia a 25 anni dalla morte dell'autore. Solo da poco, però, si è arrivati a una trascrizione fedele del manoscritto originale, perché la versione finora circolante (e su cui si sono basate tutte le traduzioni esistenti, ossia in spagnolo, tedesco, ceco, francese) era stata pesantemente rimaneggiata dal figlio dell'autore, probabilmente per gli stessi motivi di "opportunità politica" che ne avevano scoraggiato la pubblicazione.
Su tale manoscritto ha lavorato la filologa portoghese Irene Fialho, che ce l'ha generosamente fornito in anteprima, e la presente traduzione si basa appunto su tale versione filologicamente corretta del testo-base, ed esce in italiano prima ancora che in portoghese.
Relativamente alla traduzione, abbiamo già detto che la voce narrante non appartiene a Eça, bensì al segretario del conte e a quest'ultimo per interposta persona (i suoi discorsi che il segretario cita testualmente). Ora, tali narratori hanno una cultura rancida e imparaticcia, e si esprimono in uno stile ridondante, pseudo-lirico, venato di umorismo involontario, e su di esso l'autore proietta tutto il suo sarcasmo. (Solo per brevi tratti, verso la fine, la voce dell'autore si sovrappone a quella dei due narratori).
Eça de Queirós, quindi, si è sforzato di usare un lessico da trombone, e si sarà probabilmente divertito a suonare tutte le false note di un linguaggio goffo, da sagra poetica di paese con pretese di "classicità". Si è divertito anche il traduttore, dovendo trasferire una prosa piena di orpelli in una lingua - quella italiana - che all'occorrenza sa essere ampollosa, enfatica e ridondante come poche. Certa tradizione retorica italiana ha infatti fornito amido a sufficienza per ingessare ancor più la loquela verbosa dei due narratori, rendendola forse ancora più goffa di quanto non accada nell'originale.
Rovistando nel retrobottega dell'italica lingua, sono state rinvenute quisquilie e pinzillacchere che erano altrettante stille di rugiada (avrebbe detto il conte) che s'addicevano mirabilmente alla bisogna (avrebbe detto il segretario). Insomma, una lingua che stentorea s'estolle, avrebbe detto uno dei "sommi poeti" citati nel testo.