Leggere Rita Indiana, e poi tradurla, è come salire sugli autoscontri.
La tecnica degli autoscontri, perfezionata dai cultori, è semplice quanto efficace. Tutto sta nel prendere la rincorsa compiendo un ampio giro della pista, per poi fiondarsi alla massima velocità contro la vittima prescelta. Gli scontri frontali sono più scenografici e permettono di iniziare un duello di sguardi fin da lontano; ma colpire l’avversario nella fiancata dà molta più soddisfazione, sia per la forza d’urto sia per l’effetto sorpresa.
Rita Indiana è una maestra nel colpire il lettore nella fiancata. Aprire il suo Nombres y animales (Periférica 2013) equivale a infilare il gettone e partire per un giro che finisce quasi troppo presto.
Protagonista del romanzo è una quattordicenne dominicana che lavora nella clinica veterinaria dello zio mentre i genitori sono a Siviglia per l’Expo ’92. La lingua ricalca perfettamente il flusso di coscienza della ragazzina, che si lascia andare a riflessioni e racconti di vicende personali senza alcun tipo di censura: aneddoti tragicomici legati ai vari animali curati dallo zio, serate rocambolesche tra concerti e feste in casa, la scoperta dell’attrazione per l’amica Vita, i sentimenti contrastanti nei confronti di Rada (un clandestino haitiano impiegato nella clinica), in un vortice di storie e personaggi.
Il sesto capitolo di Nombres y animales è stato tradotto e inserito nell’antologia Asimmetrici arcipelaghi, pubblicata da Cascio editore in occasione del Festival di letteratura e traduzione Babel. Del resto, come afferma Ilide Carmignani, imprescindibile revisora della traduzione, si tratta di un capitolo che funziona benissimo come racconto a sé; vi si narra un episodio dell’infanzia di Uriel, uno dei personaggi del romanzo, alle prese con una madre con problemi mentali e un’orda di anatroccoli che non faranno esattamente una bella fine.
La lingua è il tratto distintivo di Rita Indiana: vivace, guizzante, fortemente legata all’oralità, si è guadagnata l’appellativo di «letteratura flow» da parte dei critici per il suo ritmo travolgente. Intrappolare questo «flusso» di parole, mimetico del parlato, nelle strutture dell’italiano scritto richiede un certo equilibrismo e il ricorso a espedienti lessicali e sintattici per riprodurre la colloquialità senza forzature.
Come ricorda il titolo di questa edizione di Babel, «Le lingue delle Antille», siamo poi in presenza di una varietà particolare dello spagnolo, quello diffuso sull’isola di Santo Domingo: dunque ulteriori complicazioni. Non solo le battute di dialogo ricalcano la parlata locale («tu mamá ta loca, pero no te apure que te vamo a cuidai»), ma il testo è anche infarcito di americanismi – se non di parole usate esclusivamente nella Repubblica Dominicana – e di realia, che sono stati conservati per portare il lettore di lingua italiana verso l’Altro. Se qualcuno si chiederà cosa sono i jobos o come è fatta una yautía, oggigiorno abbondano i mezzi per scoprirlo (e la traduttrice si riterrà soddisfatta per aver gettato il seme della curiosità). Tuttavia l’isola è anche il luogo della contaminazione con gli Stati Uniti, che penetrano tramite la musica e i programmi tv: ecco allora i numerosi riferimenti alla cultura pop mondiale, con film, canzoni, marchi di abbigliamento, e la necessità di accertarsi che siano subito riconoscibili nella lingua d’arrivo, in quanto patrimonio comune.
Noi, però, si era sugli autoscontri. Nel turbine della lingua, in questa rincorsa scoppiettante e musicale, a volte arriva la famosa botta nella fiancata. Ed è quando nella narrazione spuntano elementi inquietanti, che lasciano spiazzati per il modo ironico in cui sono raccontati, come se fossero cose di tutti i giorni. La tragicità sta nel fatto che a Santo Domingo si tratta davvero di cose di tutti i giorni. La critica della realtà, quindi, è indiretta e intrisa di humour. E noi, appena scesi dagli autoscontri con la testa che gira e le gambe che se ne vanno per conto loro, non vediamo l’ora di risalire.
Già autrice di due raccolte di racconti e di due romanzi, ma anche collaboratrice del «País» e leader del gruppo merengue-rock-dance Rita Indiana y los Misterios, con Nombres y animales la giovane scrittrice dominicana completa la seconda tappa di una trilogia iniziata con Papi e dedicata alle niñas locas: adolescenti immature colte in una fase fondamentale della loro crescita. È un peccato che gli editori italiani non si siano ancora accorti di lei.