Il nome Boris Pahor fa parte da sempre del mio mondo. Da quando nel 1947 scopersi nella biblioteca di casa quel libro giallo e azzurro che conteneva la sua prima raccolta di novelle, “Moj tržaški naslov” (“Il mio indirizzo di Trieste”). Parecchi anni più tardi, quando ormai lo conoscevo di persona, mi si presentò l’occasione di tradurlo: alla fine degli anni ’80, venutogli a mancare un traduttore per la sua rivista “Zaliv” (“Il golfo”), lo trassi d’impaccio traducendo in sloveno alcune pagine del diario di guerra di Ezio Martin. Ricevetti addirittura un’entusiastica lettera di ringraziamento da parte dell’autore, sosteneva che alcuni passi della mia traduzione fossero più riusciti della sua stessa scrittura, cosa che mi fece perseverare su questa strada.
Venuta a sapere del grande successo che i libri di Pahor stavano riscuotendo in Francia, fui tentata di tradurlo in tedesco. Per non sbagliare affrontai il suo lavoro più importante e non certo il più semplice, “Necropoli”, che diventò ben presto quasi il compito della mia vita. Iniziativa che mi ha procurato numerose gratificazioni. Innanzitutto, quaranta recensioni nell’arco di un anno e mezzo, sui più importanti giornali tedeschi; nel 2002 il premio all'autore da parte dell’emittente tedesca WDR per il miglior libro dell’anno precedente; e nello stesso anno Boris Pahor venne invitato al Poetenfest di Erlagen, come ospite d’onore.
Nel 1999, Nicolodi volle pubblicare le novelle di Pahor. Qualcuna era già in italiano, ma non bastava. Di buon grado ne tradussi nove per integrare quello che nel 2000 sarebbe diventato “Il rogo nel porto”. In occasione dell’ottantesimo genetliaco di Pahor, la slavista e ottima conoscitrice dell’autore, Zora Tavčar, sostenne che proprio quelle novelle sarebbero state adatte per farlo conoscere all’estero, le tradussi perciò parallelamente anche in tedesco, e uscirono nel 2004 sotto “Blumen für einen Aussätzigen” (“Fiori per un lebbroso”), nel 2005 il romanzo, “Die Stadt in der Bucht” (“La città sul golfo”).
Tradurre Pahor, vivendo all’estero, mi fa rivivere l’atmosfera di casa nostra, mi fa rivedere vie e sobborghi della nostra città come forse non esistono più. E mi porta a capire la generazione dei miei genitori nonché i problemi che assillavano la nostra gente. La questione dell’identità è una cosa che in un certo senso ci accomuna. L’entrata in vigore della legge Gentile privò Pahor della sua identità slovena, causandogli, insieme all’incendio della Casa di cultura slovena, lo shock che l’avrebbe segnato per tutta la vita, come descrive magistralmente nella novella “Il naufragio”. Io invece trovai la mia vera identità appena con il ripristino delle scuole slovene dopo la guerra.
Quando mi fu proposto di tradurre “Una primavera difficile”, ero incerta se accettare, in parte perché mi stavo appena riprendendo da una spiacevole labirintite che mi aveva fatto penare non poco, in parte perché mi spaventava la mole di lavoro da espletare in meno di un anno. Avevo difatti in mano la prima edizione originale, di un buon terzo più lunga della seconda che andava in effetti tradotta. Dunque senza perder tempo a leggere il romanzo – che però conoscevo per sommi capi, perché su richiesta dell’autore avevo già rivisto anni addietro le bozze della versione tedesca e avevo pure visto la riduzione teatrale – mi sedetti al computer e cominciai a tradurre, suddividendo il testo in dieci parti. Con questo stratagemma conservo la curiosità di sapere “come va a finire”, il che mi aiuta a raggiungere per tappe la meta finale, a volte – come in questo caso – con un certo anticipo sul termine previsto.