Duchessa del nulla

Argomento: Romanzo
Pubblicazione: 27 febbraio 2019

Due e rotti anni fa ho volto in italiano il primo romanzo di Heather McGowan Schooling. Lo devo, oltre che alla mia fortuna, alla fiducia generosa di Leonardo Luccone, editor della collana in cui quel libro è uscito.

Ho accettato senza pensarci quando, subito dopo, Luccone mi ha proposto Duchess of Nothing. All’entusiasmo si univa l’ingenua persuasione che avrei visitato sì un libro-paese nuovo, ma entro un continente espressivo in gran parte da me già esplorato, e l’avrei fatto inoltre in condizioni meno proibitive di quelle esattemi da Schooling, libro al quale, col massimalismo proprio dei talenti giovani e strabordanti, la McGowan si era accinta con un armamentario – lessicale, retorico, narratologico – così ampio e variato da risultare alla fine indistinto: a voler definire la prosa di Schooling con una sola parola, infatti, servirebbe un aggettivo contrario di incisivo… La verità è che le frecce all’arco dell’autrice, pur meno numerose, si sono svelate questa seconda volta, nel costato del traduttore, anche più acuminate.

La partitura di Schooling era in polifonia densissima, con simultaneità di punti di vista, un puntillismo descrittivo e una mescidazione di stili e generi, spesso nella forma di un flusso di coscienza per il quale si è voluto richiamare Thomas Bernhard (ma mentre lo stream di Bernhard è minaccioso e scorre con violenza oscura, quasi costretto in un canale, quello di Schooling è come acqua che sfugge fra le dita). Al traduttore di sciogliere quel contrappunto fitto e illusionistico per riorchestrarlo. E, laddove l’autrice aveva neologizzato, di neologizzare.

Nella Duchessa quella prosa-albero, ramificata e fronzuta, si presenta sfrondata. Tanto per cominciare, in una forma stavolta monologica ma per niente affatto bernhardiana, cioè stravolta e ossessiva al suo stesso enunciante, benché stavolta sia stata proprio la McGowan a evocare l’austriaco. Anzi limpida, a suo modo, di una musicalità non coloristica. L’inglese di Duchess, e dunque l’italiano di Duchessa, sono d’impianto due lingue ripicchiate, di vocabolario, ma il monologo è poi incernierato su una serie di richiami, ripetizioni e ritorni del materiale: una costruzione, nella sua riduzione connotativa, che sotto un andamento volubile cela un’unità strutturale molto salda che differisce continuamente i significati del testo finché i diversi motivi non siano stati presentati, intrecciati ad altri e quindi ripresentati, secondo uno schema quasi di sonata. Parole chiave, dunque: comuni e di spettro vastissimo come marriage, learning, children, brother, parents, school, fisiche e corporali come back, feet, hair, smell, rancid, colloquialismi ostentatamente brit, come moggy per “gatto” (in italiano è divenuto “scricciolo”) o l’uso di casserole, impennate incongrue verso lessici specialistici o bellurie letterarie (le memorie letterarie dirette, da Shakespeare e, in tre luoghi, da Moby Dick, “metafora ossessiva e mito personale” (Mauron) di personaggio e di autrice, questo.

Ad alcune richieste del traduttore, Heather McGowan si è sottratta con gioconda determinazione (e americana tongue-in-cheek, v. infra), esortando costui a fare, nel suo lavoro, quanto lei nel suo; ripetere il dettato ad alta voce per farne affiorare il senso. La forma di questo breve, dolentissimo romanzo è così singolare ed espressiva che a renderla in altra lingua altro non si richiede, in fondo, che di rispettare, della lingua originale, le gradazioni dinamiche; di rendere la grana della voce e il ritmo delle parole, in un carattere del personaggio e il suo destino ineludibile, per quanto sempre contraffatto:

I’m sure I make it more difficult for [you] because the way the character in Duchess of Nothing chooses to express herself - the choice of word, the rhythm, the pace is so vital to her character and her thought process.

Marco, […] DO NOT FUCK THIS UP!

Of course, It’s not for me to say.