God’s Own Country, il titolo del romanzo, merita di per sé una nota: è il modo in cui gli abitanti dello Yorkshire (così come della Nuova Zelanda) si riferiscono alla propria terra, alla maestà sovrumana del panorama delle brughiere. Già con questo titolo Raisin sembra alludere al vero protagonista del romanzo, le immense, desolate Moors della regione, che non a caso appaiono sempre in maiuscolo nel testo, nome proprio della natura selvaggia e inumana. Il titolo suggerito dall’editore, La rabbia giovane, per quanto filologicamente infedele possa apparire, nasconde però un riferimento significativo: è il titolo italiano del film di Malick, Badlands, incentrato non solo su una vicenda che ha più di un punto di contatto con quella del romanzo, ma soprattutto, come emerge chiaramente dal documentario sulla realizzazione del film, su una terra (e un cielo) che con i suoi paesaggi è la fonte da cui scaturisce la narrazione. E così Sam, l’antieroe (o eroe?) di God’s Own Country, è l’incarnazione umana di queste Brughiere in cui vagabonda come il Lenz di Büchner, e la sua malvagità (per i nostri standard) non è dovuta a una qualche immoralità o perversione, ma all’amoralità della natura.
Sam è un estraneo, un alieno nella polis del XXI secolo con la sua ipocrita idealizzazione della Natura, della Campagna, delle Tradizioni rurali: è la natura, la campagna che si rifiuta di lasciarsi inquadrare nello stereotipo turistico della Gente di città, degli Escursionisti. E così, estraniato dal consorzio umano, alienato dall’identità prescritta per le curiosità folcloristiche, Sam è amorale come la ‘vera’ natura. È l’Altro deciso a far valere la propria alterità. È la Brughiera che si ribella alla colonizzazione dei villeggianti sottraendo loro ciò che hanno di più prezioso: la figlia adolescente, che quando decide di fuggire di casa per futili motivi chiede l’aiuto di Sam senza sospettare che andrà incontro a una diversa e più terribile schiavitù.
Al di là della trama, con i suoi interessanti parallelismi con lo Sheepshagger di Niall Griffiths, nel complesso rapporto tra protagonista umano e ambiente naturale si inserisce un terzo elemento, il fattore linguistico. Un figlio di queste Brughiere come Sam non può certo esprimersi nell’inglese degli odiati Escursionisti di città che stanno lentamente conquistando le sue terre con la forza delle sterline, trasformandole nel loro paradiso bucolico da cartolina. Parla un inglese fortemente dialettale ma, e qui sta la genialità dell’autore, questo gergo non si basa solo su una meticolosa ricerca folkloristica, ma in larga parte su una rielaborazione originale e assolutamente personale.
In un’intervista, Raisin ha detto: “Most of it is a real Yorkshire language. Sort of a different melange of different parts of Yorkshire, to be honest. And a lot of it is invented.” Non c’è dunque una qualche purezza edenica da scoprire in opposizione alla corruzione della modernità, neppure a livello linguistico, e per risolvere le decine di incubi del traduttore cui ci si trova di fronte (aflunters, blatherskite, bogtrotted, chunter, crammocky, flowtered, gleg, hubbleshoo, jipping, ligged out, mawnging, nithering, powfagged, trull...) non è sufficiente un dizionario dialettale dello Yorkshire. La via è piuttosto quella indicata dallo stesso Raisin, che in riferimento all’uso di tali termini, racconta: “It actually came more out of rhythm — it began with rhythm — more than actual lexicon. And so I got a real feel for this rhythm of the landscape, and the way that transposed into the voice.” Così, nella traduzione, ho tentato di rendere la lingua di Raisin a partire da questo indissolubile legame tra dialetto, schizofrenia e natura, in modo da riprodurre l’esperienza del viaggio nel male dall’interno, intensificata dall’uso della prima persona (cui Raisin è arrivato in un secondo momento della stesura).