“Želary” è il secondo libro di Kvĕta Legátová, dopo “La Moglie di Joza”. I due libri, originariamente pubblicati in ordine inverso, compongono un breve ciclo narrativo che ha come elementi comuni ambientazione geografica, atmosfere e alcuni personaggi. Quando nel 2001 apparve per la prima volta la raccolta “Želary”, Kvĕta Legátová allora ottantaduenne, era praticamente sconosciuta. Ciò nonostante il libro, stampato in un’esigua tiratura di 400 copie, divenne un vero e proprio caso letterario, riportando un notevole successo sia di critica e sia di pubblico e procurando all’autrice una grande popolarità.
Si tratta di una raccolta di storie crude e liriche ambientate negli anni ’30 a Želary, piccolo villaggio dell’isolata e misera area delle montagne morave. Zona molto familiare all’autrice, poiché qui è stata insegnante per molti anni in piccole scuole di paese, riportandone una serie di esperienze che l’hanno segnata profondamente entrando in contatto con gente di “un’immensa ricchezza, nonostante l’onnipresente povertà”. Proprio da queste esperienze è nata la raccolta, scritta negli anni ’70 e pubblicata solo trent’anni più tardi, lievemente rimaneggiata. Ne sono protagonisti uomini e donne ruvidi (ma non vanno tralasciati i bambini, di cui la Legátová dà struggenti ritratti), che conducono un’esistenza dura, perseguitati dalla miseria e segnati dai pregiudizi dell’ambiente ristretto, ma pieni di umanità. Gli stessi personaggi appaiono spesso nei vari racconti, le loro storie si intrecciano andando a comporre un mosaico coeso, armonioso. A volte il lettore viene a conoscenza delle conseguenze di un avvenimento soltanto in un racconto successivo. E in effetti, più che di composizioni a sé stanti, si può forse parlare di romanzo “sui generis”. Tante le storie e tanti i personaggi: Žena la Contasoldi, il fabbro Joza (protagonista anche in “La Moglie di Joza”), l’ingegner Šelda, Lucka la guaritrice, Honza il Buffone e la dolcissima Helenka, maestro e prete del villaggio… Un ruolo fondamentale giocano i luoghi: Želary dal fascino crudele e un paesaggio descritto dall’autrice con particolare attenzione. Il succedersi dei cicli naturali e lo scorrere del tempo accompagnano costantemente la narrazione, scandendone quasi il ritmo. Uno dei tratti più interessanti del libro è proprio l’originale fusione tra il racconto naturalistico, rurale, di fine Ottocento e procedimenti stilistici di grande modernità. La realtà dura, spesso spietata in cui vivono i personaggi è descritta in uno stile sobrio, quasi scarno, realistico, avulso da qualsiasi sentimentalismo e al tempo stesso pieno di poesia, di lirismo. Sotto il realismo implacabile del testo il lettore avverte la simpatia e la comprensione dell’autrice per i personaggi provati dalla sorte. La loro presenza in diversi racconti le permette inoltre di analizzarne le sfaccettature del carattere da più punti di osservazione, con un ricorrente alternarsi di presente e passato.
In entrambi i libri dell’autrice, la resa italiana è stata piuttosto difficile. Nella nostra lingua è impossibile riprodurre tanta ricchezza semantica con due o tre parole, come nell’originale, o ricreare immagini a volte criptiche, ed è stata una gran fatica cercare di limitarsi, di non spiegare troppo, di non rendere il testo prolisso e i dialoghi troppo lunghi. Un grosso problema sono stati i tempi verbali. Kvĕta Legátová usa una miscela molto equilibrata di passati, presenti storici e futuri, dosando gli aspetti perfettivi e imperfettivi. Renderli nella nostra lingua è impresa ardua. Ho dovuto fare un grosso sforzo per non italianizzare troppo la struttura della frase e del periodo, che nella Legátová non è mai casuale, rischiando – nel tentativo di rendere, dal ceco all’italiano, un effetto equivalente - di incorrere in un’ipertraduzione o in soluzioni perifrastiche troppo numerose.