Un'antologia italiana della narrativa breve di Max Aub (1903-1972) sulla Guerra Civile spagnola e la diaspora repubblicana avrebbe dovuto pubblicarla Mondadori nei primi anni '60 del secolo scorso, come attestano la corrispondenza e la documentazione esaminate da Valentina Scaramozzino («Max Aub e l'Italia», in Vittoria Biagini e Valentina Scaramozzino, Il delitto di scrivere. Due studi su Max Aub, Verona, Fiorini, 2006, pp. 125-227). Il progetto, come molti di quelli che Aub tentava faticosamente di promuovere dal suo esilio messicano, finì per arenarsi, e per il pubblico italiano l'Aub narratore è rimasto finora, nel migliore dei casi, quello dei fortunati Delitti esemplari e, forse, del Jusep Torres Campalans, ancora presenti nel catalogo Sellerio.
Del ciclo di romanzi del Laberinto mágico si è potuto leggere infatti solo il primo capitolo, Campo cerrado (1943), tradotto da Ignazio Delogu con il titolo Barcellona brucia (Roma, Editori Riuniti, 1996) in occasione del sessantesimo anniversario dello scoppio della Guerra Civile. Altrettanto rare sono le versioni dei racconti ascrivibili all'universo del Laberinto: passano quasi quarant'anni da quando Dario Puccini traduce De cómo Julián Calvo se arruinó por segunda vez (La seconda avventura di Julián Calvo, «L'Europa Letteraria», 13/14, 1962, pp. 93-101) alla pubblicazione de Il ballo (El baile) a cura di Massimo La Torre («Critica Liberale», 42, 1998, pp. 93-95). E ne dovranno trascorrere altri dieci prima di poter leggere La vera storia della morte di Francisco Franco nella bella traduzione di Federica Cappelli, inclusa nella prima antologia italiana di racconti dell'esilio spagnolo, Una farfalla sull'orlo dell'abisso (Pisa, ETS, 2008), che fornisce le coordinate di lettura indispensabili per avvicinarsi ad autori come Aub, Francisco Ayala e Ramón J. Sender. Meno accurata è la seconda versione della Vera storia presentata tre anni dopo da Andrea Fantini (Brescia, L'Obliquo, 2011), che peraltro non sembra conoscere il lavoro di Cappelli.
Pensando quindi, per forza di cose, a un lettore non specialista e poco familiarizzato con la produzione aubiana, nello scegliere gli otto racconti che compongono Gennaio senza nome ho cercato di costruire un percorso di lettura che seguisse le tappe storiche narrate (guerra civile, esodo del '39, campi di concentramento francesi, esilio) più che la cronologia della pubblicazione dei testi. Allo stesso tempo, la narrazione, pur mantenendo sempre una forte impronta testimoniale, si diversifica di volta in volta grazie alla straordinaria poliedricità della scrittura di Aub. Mi sembra appropriato, in questo senso, che l'antologia si apra proprio con Gennaio senza nome, dove la cronaca della retirada dei profughi repubblicani è filtrata dallo sguardo straniante di un albero, e si chiuda con un brevissimo gioiello ucronico, Proclamazione della Terza Repubblica spagnola, in cui si prospetta con un sorriso amaro un impossibile riscatto nazionale.
Nell'annotazione dei testi, che considero parte integrante del lavoro traduttivo, ho cercato di chiarire tutto quanto le prose di Aub sono solite menzionare in forma laconica: dati storici fondamentali, sigle, citazioni e riferimenti intertestuali, parole e frasi in altre lingue (francese, valenciano). Nel caso dei realia, mi sono lasciato invece orientare dalla loro pregnanza narrativa: così, nella prima pagina di Librada, dove si tratteggia con maestria una scena domestica tra due coniugi, esuli repubblicani a Veracruz, ho conservato il termine equipales (poltrone artigianali messicane), correlativo del (precario) radicamento della coppia, ma ho esplicitato un «tortilla de patatas» in «frittata spagnola» per rimarcare la nostalgia per la terra perduta che attraversa tutto il racconto.
Dal punto di vista traduttivo, l'aspetto più ostico di questi testi aubiani è senza dubbio il loro humor verbale, che spesso sfrutta, con perizia concettista, l'ambito fraseologico della lingua. Mi limito a citare tre diverse difficoltà riscontrate. In Gennaio senza nome, l'albero narratore pronuncia un «Me voy por las ramas [= Mi perdo in chiacchiere]; a lo que iba», che ho cercato di compensare con «Sto divagando, ora la pianto», volendo recuperare in ogni caso un'allusione al regno vegetale. Nel Cementerio de Djelfa, invece, troviamo questa sconsolata riflessione sul consorzio umano: «Las gentes dicen: "¡Trabaja!", y las gentes trabajan. Y hacen su caja», dove quell'hacer caja può valere come ʻincassare, contare l'incassoʼ ma anche come ʻfarsi la propria cassa [da morto]ʼ, per cui ho utilizzato un «E poi passa alla cassa» che si sforza di mantenere la stessa ambiguità. Per finire, cito un caso in cui il contesto mi ha fatto preferire una traduzione letterale dell'espressione idiomatica, con relativa nota esplicativa:
Cuando Vicente Rojo le hizo una alusión acerca de quién «cortaba el bacalao», el hombre le contestó que: ¡quién era capaz de saberlo!, estando Escocia tan lejos; pero por lo que se refería a los ternos, él...
Il passo viene da Dei benefici delle guerre civili, un breve e intensissimo racconto sulle vicende, reali e poi ipotetiche, di una coppia di sarti. Qui, la soluzione traduttiva più adeguata per cortar el bacalao sarebbe «portare i pantaloni», che però, rispetto al testo originale, ha lo svantaggio di avvicinarci alla quotidianità dei protagonisti, disinnescando la risposta sorniona del sarto (chissà chi taglia il baccalà, la Scozia è tanto lontana. I completi, però, li taglia lui...). Valgano questi tre esempi come semplice cenno alla ricchezza e all'inventiva verbale che rendono immediatamente riconoscibile, nella letteratura in lingua spagnola del Novecento, lo stile di Aub, francese di nascita e scrittore spagnolo per vocazione e ostinata fedeltà.