Poiché questo libro di Greil Marcus è un libro fortemente personale, forse il suo libro più intimo insieme a Mystery Train, mi sia permesso concludere con delle annotazioni personali. Per me, e credo come per molti altri, Like a Rolling Stone non è mai stata semplicemente la «mia canzone preferita»: è stata, e sarà sempre un manifesto esistenziale, un altro modo per dire il proprio nome. Due episodi hanno mutato il mio sguardo su questa canzone. Novembre 2003. Esce il primo numero speciale di una serie monografica, Uncut Legends della rivista inglese «Uncut», numero dedicato a Bob Dylan. A quaranta musicisti viene chiesto di scegliere le canzoni che amano di più di Dylan. Ogni canzone ha un breve commento di un artista. Al primo posto Like a Rolling Stone. Non fu questo a sorprendermi, ma la didascalia che l’accompagnava. Pete Yorn, un cantautore americano: «Avevamo fatto da gruppo spalla a Bob ad Atlanta e il nostro pullman era parcheggiato proprio dietro il palco. Lui iniziò a cantarla proprio mentre io e la mia ragazza ce la stavamo spassando per la prima volta. Potevo sentirlo mentre strillava “How does it feel” e pensai dentro di me: “Alla grande, cazzo”». Novembre 2004. Come ogni pomeriggio, per tre mesi, percorro M Street a Washington, passando davanti alla vetrina di Barnes & Noble getto un’occhiata e vedo che nello scaffale delle riviste musicali c’è un numero speciale di «Rolling Stone», The 500 Greatest Songs of All Time. Entro nella libreria, incuriosito e nulla più. Ma quando arrivo allo scaffale, scopro che l’unica copia la sta sfogliando una ragazza bionda, con la coda di cavallo e un giubbetto di pelle. Faccio finta di interessarmi ad altre riviste, ma è evidente che voglio «Rolling Stone». La ragazza si volta verso di me e mentre mi dà quell’unica copia, mi sorride e andandosene mi dice semplicemente «How does it feel?». Così mi fu rivelato non solo quale fosse la più grande canzone di tutti i tempi, ma dopo tanti anni e quasi per caso, l’essenza stessa di quella canzone. E da chi poi? Una ragazza bionda sconosciuta. Forse era lei la protagonista di cui Dylan cantava. Forse era la figlia. Per me rimane l’immagine definitiva di «Like a Rolling Stone», una ragazza bionda che si allontana lasciandoti solo con una domanda senza risposta, nonostante ogni volta che ascolti la canzone il suo volto sbiadisca, facendo diventare quei sei minuti e passa l’intensificarsi di una dissolvenza, qualcosa che la ripetizione dell’ascolto non riesce a trattenere, come quando si dice il proprio nome tante volte di seguito da perderne il senso. No Direction Home, per me il verso più intraducibile di Dylan. No Direction Home: forse hanno ragione Bob, Greil e la ragazza bionda. È quando credi di aver smarrito la tua strada il momento in cui in realtà trovi la direzione che cercavi. Più o meno.
(Articolo pubblicato per gentile concessione di Donzelli editore, postfazione di Andrea Mecacci a Like a Rolling Stone, Greil Marcus, Donzelli editore, 2005)