Ogni volta che qualcuno mi chiede quali siano le qualità necessarie per tradurre o come si diventi traduttori, rispondo che le doti indispensabili sono esattamente le stesse che attengono al mestiere di scrittore, alle quali bisogna aggiungere la conoscenza del paese dalla cui lingua si traduce e una tendenza al sospetto che non consenta di dare niente per scontato.
Oggi come oggi, tuttavia, dopo le ultime tre o quattro traduzioni che mi è capitato di fare, sarei abbastanza incline a mettere in evidenza un altro aspetto e a dire che in realtà al traduttore si chiede di essere una persona onnisciente. Un traduttore dovrebbe sapere a memoria l’Enciclopedia Britannica, l’Atlante Universale e la grafia di tutte le lingue del mondo, dal cinese all’amarico. Dovrebbe sapere che Reduktorny è un quartiere di Machačkala (capitale del Daghestan), che Achilla con la “a” non è un errore di stampa, ma il nome di un vescovo del II secolo, che in filosofia esiste una teoria del “rizoma” e che seksot non è uno spettacolo a luci rosse ma l’abbreviazione russa di “SEKretnyj SOTrudnik”, collaboratore segreto; che genzek sta per segretario generale, specnaz per corpo speciale, e narkompros per commissario popolare per l’istruzione.
Tutte le difficoltà che fanno abitualmente parte di questo lavoro si presentano per così dire al quadrato quando si affrontano opere che, come il precedente libro di Górecki “Pianeta Caucaso” (dedicato al Caucaso settentrionale) e questo nuovo sulla Georgia, primo pannello di una trilogia dedicata alla Transcaucasia, cui seguiranno l’Armenia e l’Azerbaigian, parlano di mondi per noi sconosciuti, come appunto le repubbliche caucasiche settentrionali e meridionali. Il primo ostacolo che si presenta è una foresta di toponimi talmente ignoti che ci si domanda se si tratti della realtà, o di un romanzo di Tolkien, pieno di nomi fantastici e di pura invenzione. Traslitterare dal polacco o dal russo una parola nota è relativamente semplice, mentre è un po’ meno facile risalire al nominativo di nomi quali come Šandag, Tufandag e Kyzylkaja che nel testo si presentano nella grafia polacca, e magari al genitivo. Che cosa saranno i Nart: una catena montuosa o un’antica popolazione? E Khinalug è un luogo, o un’etnia? Che differenza passa tra gli adighi e gli adigezi? Chi saranno i megrel e gli svan? Come si dovrà dire: rutul o rutuli? Che differenza passa tra un krajkom e un obkom?
Ovviamente le enciclopedie di cui normalmente ci si serve non spiegano che tutti gli adigezi sono adighi ma non tutti gli adighi sono adigezi, o che la sigla KCzR è l’abbreviazione del Karačajevo-Cerkessia per cui, dopo ore passate in ricerche spesso inutili su Internet, si è presi dalla disperazione. Il curioso è che, finché si combatte con questa paranoia interpretativa, si perde completamente di vista l’insieme dell’opera e si tende a vederla soltanto come un drago dalle cento teste che bisogna sconfiggere con le poche forze a nostra disposizione. Non è raro che, a quel punto, ci si chieda sconsolati chi ce l’abbia fatto fare.
Ma quando finalmente l’ultimo mostro è sconfitto e si approda alla meta, ci si accorge, come in questo caso, di aver tradotto un libro bellissimo, dal quale abbiamo imparato cose alle quali altrimenti non ci saremmo mai accostati. Siamo contenti, forse abbiamo fatto un altro piccolo passo verso la sognata onniscienza…
Fino al momento in cui un dotto specialista in lingua georgiana, dopo avere letto il libro, ci spedisce quattro pagine fitte di esempi, informandoci che, per quanto riguarda la traslitterazione, ci siamo resi colpevoli “di oscillazioni e inconsistenze ortografiche, oltre che di una serie di soluzioni che appiattiscono distinzioni importanti a livello fonologico”. E, purtroppo, ha ragione. Si passa all’atto finale: l’attesa di una seconda edizione che ci permetta di rimediare. Anche per questa volta, l’onniscienza si allontana...