Georges Minois ha deciso di ripercorrere la storia del riso attraverso gli occhi e le parole degli autori e degli artisti che hanno segnato la storia dell'umanità. Dall'Iliade e l'Odissea, passando per la Bibbia, le feste medievali e i filosofi moderni, Minois analizza tutte le sfaccettature del riso e ovviamente del suo grande oppositore, la serietà, e i motivi per i quali anche la serietà, spinta agli estremi, alla fine possa far ridere. Basti pensare al capitolo dedicato ai Padri della Chiesa, eloquentemente apostrofato con il sottotitolo "Gesù non ha mai riso", parola di San Giovanni Crisostomo, che ci riporta ad un estremismo cattolico che oggi può giusto far ridere. Incurante di colpire la sensibilità dei cattolici più ferventi, Minois riporta con intento ironico e derisorio le parole di evangelizzazione pronunciate e scritte da Sant'Agostino, da San Giovanni Crisostomo, da San Benedetto d'Aniane, facendole seguire dai suoi commenti pungenti che, nella traduzione, non ho potuto né voluto smussare. Dio fa ridere, il diavolo fa ridere: se l'autore voleva essere provocatorio nella sua lingua, volevo che lo fosse anche nella mia, e questa è stata la fatica che mi ha accompagnato per tutta la stesura della traduzione. Stupita del fatto che in un'opera tendenzialmente didattica molte sue sententiae fossero volutamente polemiche, specialmente riguardo al contesto religioso, sono arrivata persino a chiedermi se avessi l'obbligo morale di limare, mitigare: un'invettiva contro il Papa qua, una presa in giro della Bibbia di là. Alla fine, preso il dovuto distacco, trovo che la sua vena polemica abbia aggiunto un po' di pepe alle fitte pagine di analisi storica e letteraria; in fondo non ne è venuta fuori proprio solo una storia asettica e arida, in fondo è ricco di spunti di discussione sui sempiterni e annosi problemi del mondo.
Attraverso le sue pagine ci si imbatte anche nella nascita della satira, della commedia, del genere grottesco. Minois, a forza di scavare, trova qualcosa di comico persino nell'esistenzialismo e nel realismo (un esempio ne è La Caduta, dove Camus attribuirebbe un valore ironico all'atto fondatore del cristianesimo) e riesamina con occhio critico e impietoso la comicità volgare dei nostri tempi, così distante ormai dalle finezze greche e latine e dai bons mots medievali, di cui riporta alcuni esempi, e che a noi, oggi, non possono che strappare un sorriso abbozzato. Il primo grande scoglio di traduzione è stato il titolo, questa Histoire du rire che eufonicamente non piaceva né a me né all'editore: la storia del riso in copertina richiamava in primo luogo la storia del riso-alimento e pianta. Anche perché non è così comune sentir parlare di "riso", quanto piuttosto di "risata", se non di "sorriso". Una storia della risata allora? O magari del sorriso? Come potevo correggere questo suono scomodo del "riso"? Poiché lascio la traduzione del titolo sempre alla fine, ho rimandato la decisione, non pensando che avrei ritrovato il rire sostantivo in ogni singola pagina. Inizialmente l'ho tradotto con "risata", poi, man mano che mi addentravo nel testo, ho capito che la "risata" non poteva essere quel rire, anzi, la risata è il risultato, o meglio l'atto del rire, che si manifesta mettendo in movimento determinati muscoli del viso e del ventre, che fa muovere il diaframma e ci fa emettere il suono caratteristico, il rumore gradevole o meno della risata. Il motore che la produce è appunto il riso e non ci sarebbe stato modo alcuno di aggirare l'ostacolo. Ecco quindi scelto il titolo finale, decisione che poteva sembrare ovvia ma che non lo è stata affatto, e pazienza se ogni tanto mi sono sentita dire: "Storia del riso? Ah, ma non l'hanno inventato i cinesi?". In questa traduzione ho quindi, essenzialmente, scoperto la difficoltà di rendere in italiano alcuni termini la cui traduzione mi è sempre sembrata scontata, come bons mots e se moquer, che non sempre diventa "schernire" o "deridere". Ecco quindi la grande difficoltà di questa traduzione, che persiste dalla prima all'ultima pagina: capire che in un dato periodo storico si potesse parlare di scherno o di motteggio, che in un altro fosse meglio parlare di burla, che ad un certo punto c'erano i buffoni ma ad un altro si chiamavano giullari, che la derisione in italiano non poteva essere sufficiente per capire se fosse bonaria o crudele e che il registro linguistico avrebbe dovuto cambiare. Bon mot, saillie, canular, pitrerie, bouffonnerie; e poi pitre, bouffon, farceur, jongleur; gaillardise, grivoiserie, raillerie, moquerie. La storia e gli eventi, le parole scritte nelle opere e interpretate nei teatri dovevano suggerirmi l'aggettivo migliore; contestualizzare, nel mio lavoro con Minois, è diventata una necessità imprescindibile. Pertanto la pubblicazione è slittata di mese in mese: cercate di capire, dicevo, qui c'è davvero da studiare. Mi sono imbattuta nella difficoltà di decifrare l'immensa e purtroppo (per me) confusa bibliografia di Minois, che riportava citazioni, modi di dire e situazioni traducibili nel modo giusto solo sapendo, leggendo, cercando nelle commedie, nelle tragedie, nelle omelie, nei fabliaux, nei sermoni, negli epigrammi di centinaia e centinaia di autori più o meno conosciuti. Nel testo ci sono numerosissimi casi di opere inesistenti nelle biblioteche italiane, di autori davvero poco studiati; sono stati i momenti più difficili del mio lavoro, combattuta dal timore reverenziale di restituire in italiano contemporaneo un testo che aveva senso solo nella musicalità e nel mistero di un francese antico, a tratti bilingue con l'inglese. In questi casi ho dovuto lasciare l'originale, affidandomi alla perentoria nota del traduttore, che ogni tanto ho vissuto come una sconfitta e ogni tanto come l'unica via di scampo. In altri casi ho dovuto tradurre opere scritte originariamente in latino, che l'autore ha reso in francese moderno, e allora mi sono chiesta se dovessi ricalcare la linea moderna di Minois o andare più a fondo, restituendo un italiano che partisse non dal francese ma dall'originale latino. Potrebbe sembrare un eccesso di zelo, ma certe libertà linguistiche, a volte, proprio non si possono prendere e quindi ho sentito il dovere di approfondire. Per farlo mi sono avvalsa dell'aiuto di una grande conoscitrice della materia, la mia amica e scrittrice Cristina Legovich, che colgo l'occasione di citare e ringraziare. I lettori si troveranno dunque di fronte ad un'opera decisamente poliedrica che può essere iniziata da qualsiasi capitolo, per quanto segua comunque una cronologia storica progressiva. Vorrei inoltre sottolineare la difficoltà della traduzione e trascrizione esatta in italiano dei nomi propri di tutti gli autori citati (19 pagine di indice dei nomi) e soprattutto delle loro opere, siano esse libri, opere teatrali o quadri, un'operazione che ha richiesto grande cautela e attenzione per non incorrere in eventuali gaffe cui, come sappiamo, il traduttore è facilmente esposto.