Traduzione da: francese | di: Pierre de Marivaux / editore: La Tigre di Carta, 2016 | Adattamento di Antonio Carnevale
Ma come, non era Arlecchino educato dall'amore? No, Arlecchino è tutt'altro che educato, fortunatamente, e in questa pièce non lo sarà mai. Il titolo proposto probabilmente farà storcere il naso ai miei amici francesisti e traduttori; non me ne vogliano. O forse riuscirà a incuriosirli, a renderli smaniosi di misurare fino a che punto mi sono allontanato dalla lingua di Marivaux. E magari non piacerà neppure a quegli attori che nel loro percorso si sono cimentati proprio con questo testo: leggendo il nuovo titolo in copertina, e non capendo le ragioni di tale novità, già li vedo accantonare velocemente l’infedele traduzione salutandola con un compassionevole sorriso. Ma ho deciso che quel poli bisognava tradurlo così; a dispetto di un titolo oramai consolidato, a dispetto della filologia, a dispetto di una lingua, il francese, che non ho mai appreso appieno, da buon villano, incolto, appunto mal educato. Una scelta suggeritami da tale proporzione: Arlecchino sta alla Fata come il mio testo sta alla regola, alla grammatica. Ecco dunque il metodo che ho seguito nel tradurre. E quando non sono riuscito a sciogliere alcuni nodi di questo delicato francese del Settecento, mi sono fidato semplicemente delle suggestioni della mia memoria. A cominciare da quel passaggio, da quella trasformazione (e mai educazione!) che avveniva repentina, si metteva in atto in quel momento magico della quinta scena: il primo incontro tra Arlecchino e Silvia.
Questa traduzione nacque sotto il segno dell’urgenza: invitati al carnevale romano del 2011, noi compagni d’accademia da Parigi partimmo per Roma con questo nostro nuovo spettacolo, messo in piedi dalla regia di Carlo Boso. Solo un paio di settimane per preparare tutto: ruoli, testo, movimenti, maschere, costumi, voli, albergo. E così capitava che a Parigi, durante il periodo dell’allestimento, Giusy Pignotti ed io ogni mattina entravamo in sala qualche ora in anticipo rispetto a quella stabilita, ed insieme iniziavamo a tradurre. E in quelle ore mattutine, traducendo, tutti e due capimmo immediatamente che bisognava lasciare Marivaux e la sua lingua in Francia, a riposo, almeno per la settimana del carnevale. Ne venne fuori una versione che metteva insieme lingua italiana, francese e dialetti meridionali (addirittura le battute di Arlecchino io le pronunciavo in scena con il costume e la maschera di Pulcinella...); una piccola libertà che ci concedemmo prima di riprendere a pieno regine, una volta rientrati, l'Arlequin nel suo originale francese per portarlo in primavera nelle piazze di Parigi, Vincennes, Versailles e poi in estate ad Avignone.
Una vera e propria operazione al contrario (mettere cioè alla prova prima la versione tradotta e poi, in un secondo momento, il testo di Marivaux) che gettò il primo seme, generò l’idea di questo volumetto. E per mesi rimase appunto soltanto un’idea: i fogli di quella frettolosa e arrangiata traduzione li accantonai insieme ad altri copioni perché ai miei occhi parvero troppo presuntuosi ed inutili per ritenerli degni di un’eventuale pubblicazione.
Ma poi la vita mi riportò in Italia e sin da subito cominciai a sentire la necessità di riproporre in scena l’Arlecchino di Marivaux. Riflettendo sulla sua rappresentabilità, mi resi conto che quella necessità era soprattutto una sfida da raccogliere: riuscire a mettere in risalto, a cominciare da una nuova traduzione, la problematica del potere. Ed allora eccomi a riprendere quei fogli, a correggerli, a consultare l’Arlecchino dirozzato di Tumiati e a leggere l’interpretazione che dell’Arlequin di Marivaux fa Anna Lia Franchetti nel suo Tra narrativa e teatro, alla quale questa mia nuova versione è debitrice. Ma in questa mia esplorazione del tema, più che ribadire la dicotomia (cara a tanta Commedia dell’Arte) tra l’amore del potere (Fata) e il potere dell’amore (Arlecchino) – e felicemente conclusa a favore del protagonista – ho preferito posare l’accento sul carattere ribelle, anarchico e anti-accademico di Arlecchino. In un mondo fatato e meraviglioso, fatto di apparizioni e incantesimi, Arlecchino è pronto ad accogliere l'amore in tutta la sua bellezza e semplicità: lontano dall'essere la versione proposta dalla Fata, è invece un amore che non detta o impone regole da seguire. Ed è proprio l'incontro con Silvia che permette ad Arlecchino di trasformarsi, al punto di mutare sia fisicamente (la sua postura da animale diventa in pochi istanti eretta, umana), sia mentalmente (soprattutto nello spirito).
Così non sorprende che il luogo adatto a tale trasformazione sia lo specchio della natura del personaggio: non poteva avvenire infatti nel palazzo della Fata o nel suo giardino (luoghi civilizzati) bensì in aperta campagna, nei prati appunto incolti. Perché Arlecchino è alla fine anche un barbaro, un puro, che si oppone alla civiltà falsa e ingiusta. Il potere, il monarca-tiranno da piegare, è rappresentato da una Fata libertina che ha tutto l’interesse di impartire al giovanotto la buona educazione aristocratica; una rete, quest’ultima, che ha il presuntuoso obbiettivo di catturare fra la sue maglie anche ciò che dovrebbe essere incontrollabile, spontaneo, ribelle, libero: il sentimento d’amore. E a questo serve la presenza del maestro di danza: con costrizioni si plasma, si modifica il corpo, si reprimono e si rendono aggraziati tutti quei movimenti che sono spontanei, naturali, interiori. E poi, come se la Fata seguisse un manuale, ecco che in successione sottopone Arlecchino prima all'atto del baciamano (fare apprendere le buone maniere) e poi alla visione dei divertissiments offerti dalla compagnia di ballerini e cantanti (il potere della cultura attraverso le arti: poesia, canto, danza).
E nella lotta tra i due poli - la Fata autoritaria e l'indisciplinato Arlecchino – si inserisce la borghesia moralizzatrice: Trivellino. Però più che mosso dallo sdegno per azioni riprovevoli come il rapimento di Arlecchino oppure l’infedeltà della donna a Merlino, il motore della sua azione sembra essere orientato soltanto dove più gli conviene (Trivellino è infatti devoto al mago più generoso del mondo; e Arlecchino, per ringraziarlo del suo aiuto nel raggirare la Fata, gli promette di riempirgli l’intero cappello di centesimi …). Una posizione ambigua, opportunistica, (un preludio, forse, di quello che sarà il ruolo della borghesia, mezzo secolo più tardi, nella rivoluzione francese?) tanto che nel finale Arlecchino, nonostante lo stratagemma sia architettato proprio da Trivellino, di bastonate ne avrebbe pure per lui se non ci pensasse Silvia a fermarlo.
Sarebbero innumerevoli gli spunti per delle nuove riflessioni che questo classico regala. Ma mi fermo qui, e lascio finalmente la parola ai personaggi.
Concludo però con un’ultima precisazione: ho scritto traduzione scenica proprio per essere certo che non venga fraintesa come gesto letterario. Questo volume dovrà dunque essere sciupato, spiegazzato, sottolineato, strappato, maltrattato, martirizzato; non risparmiatevi. Ed allora sì che ne avrete fatto buon uso. Mi rivolgo a coloro che avranno il coraggio di portare Arlecchino, Silvia, la Fata e Trivellino nelle piazze, nei giardini, nei salotti privati, nelle scuole, e di recitarlo, offrirlo senza alcun timore soprattutto ai bambini. Fatelo. Ché non c’è nessuna vergogna a parlare d’amore. Ché non c’è nessuna vergogna nel rispettare l’unico obbligo che questa traduzione vi domanda: dare speranza.
Antonio Carnevale