Quando l'editore Fanucci, in coincidenza con i quarant’anni dall’esordio letterario di Ruth Rendell, mi ha proposto la traduzione del suo primo romanzo, From Doon with Death, ho accettato con entusiasmo. Lettore accanito di gialli fin dall’infanzia, seguivo da tempo le opere della scrittrice inglese, che in Italia fino a quel momento uscivano in edizioni "popolari" e di genere, come i Gialli Mondadori, o anche, per quel che riguarda quelle a firma Barbara Vine, nei tascabili Tea. Si trattava di edizioni reperibili quasi esclusivamente sulle bancarelle d’occasione, destinate quindi per lo più ad appassionati del genere. L’operazione editoriale intendeva valorizzare una produzione colta e raffinata, che trascende gli angusti limiti della giallistica, tanto da decidere di pubblicare le opere della Rendell, autrice di crime stories di consolidata fama internazionale, in una collana a lei dedicata, nell’intento di promuovere anche qui da noi la visibilità che merita.
La prima impressione che ho ricavato, nella nuova veste di traduttore, dal confronto con il testo è stata la conferma di avere davanti una scrittrice di grande talento. Sin dalla scena iniziale, costruita con tocchi rapidi e sapienti, la Rendell dà vita ad un’atmosfera di sospensione di ambiguo mistero, in grado di tenere avvinti senza cadute fino al sorprendente epilogo, che rivela, per un’opera scritta nel 1964, una apertura a tematiche di certo non usuali per l’epoca e, anzi, alquanto trasgressive. L’impianto narrativo è quello di un giallo dall’intreccio rigoroso ed essenziale: una galleria di personaggi della più varia umanità, che si muovono sullo sfondo della provincia inglese il cui tessuto sociale affonda le proprie radici nel dopoguerra, anche se la vicenda si snoda all’inizio degli anni ‘60, in un momento di forte transizione che l’autrice intende rappresentare con estrema aderenza alla realtà. A conferire profondità alla vicenda sono quei tratti distintivi che attraversano tutta l’opera della Rendell, già presenti in questo romanzo d’esordio: l’attenzione al dettaglio, la capacità di scavare nelle pieghe dei fatti, che ad un’analisi approfondita si rivelano spesso diversi da come appaiono, la fine analisi psicologica dei personaggi e la rappresentazione dei rapporti umani, indagati con acuta capacità di introspezione.
Questa complessa mescolanza di elementi doveva necessariamente concretizzarsi in un approccio alla traduzione che, preservando l’eleganza e la raffinatezza dell’originale, scevro da qualsiasi tentazione minimalista o tendenza all’esasperazione dei toni, rendesse nella maniera più fedele e icastica quella sapiente ricostruzione del tessuto sociale e umano che fa delle opere della Rendell un documento psicologicamente attendibile, in grado di mettere in scena anche le dinamiche culturali sottese alla temperie storica delle vicende narrate, senza per questo rinunciare ad offrire il piacere di una lettura avvincente.
In particolare, una delle maggiori difficoltà insorte durante la traduzione - di questo come di altri testi della Rendell - è stata l’esigenza di non alterare quella rete di rimandi alla tradizione letteraria tardoromantica di lingua inglese cui l’autrice si richiama costantemente nel corso del romanzo, nel momento in cui, ad esempio, pone ad epigrafe di ciascun capitolo versi di poeti quali Walt Withman, Matthew Arnold, Thomas Hood, Alfred Tennyson, Mary Coleridge, Christina Rossetti, Robert Browning, tra gli altri. Tale fitta serie di citazioni è intimamente connessa e funzionale allo sviluppo della trama, e come tale occorreva prestare particolare attenzione ad una corretta resa stilistica e formale, senza trascurare il rischio, sempre in agguato quando si affrontano scrittori così raffinati, di non riuscire a cogliere il riferimento diretto o indiretto. In relazione a ciò, è emersa la necessità di diversificare i registri linguistici, che appare evidente nella giustapposizione fra l’andamento discorsivo della narrazione e la frequente inserzione di brani epistolari di stile più elevato, carichi di echi e di rimandi a quel patrimonio letterario di cui si è detto.
La trama è presto detta: Margaret Parsons, tranquilla casalinga della sonnolenta provincia inglese, donna affatto priva di qualsiasi attrattiva, scompare misteriosamente per poi essere ritrovata cadavere in un bosco; unico indizio l’impronta di un rossetto. E’ a partire da questa esile traccia che l’ispettore capo Wexford - il personaggio più famoso della Rendell, uomo dal temperamento sanguigno, dalle letture colte e dalle intuizioni geniali, protagonista di un ciclo di opere ambientate nella cittadina immaginaria di Kingsmarkham, che in questo romanzo fa la prima comparsa - comincia ad indagare sull’ambiente in cui si svolgono i fatti e sui personaggi che vi si trovano a vario titolo coinvolti, portando alla luce un groviglio di intrighi, segreti e scottanti verità che saranno svelati con il classico colpo di scena finale.
Si tratta, in definitiva, di un romanzo godibilissimo, dal forte impatto emotivo e ricco di suspense, una sorta di sfida intellettuale per il lettore - come nella migliore tradizione dei gialli anglosassoni - a scoprire il colpevole prima che a rivelarlo sia l’investigatore di turno. In ogni caso, al termine della lettura di un romanzo della Rendell, si avverte sempre la sensazione di aver appreso qualcosa sulla psiche e sull’ingarbugliato intreccio delle relazioni umane.
Giuseppe Costigliola