Traduzione da: Giallo - Letteratura greca
Il commissario Charìtos, tra cucina e metafisica del giallo
Diversamente da alcuni grandi investigatori della storia letteraria (due nomi fra tutti: Nero Wolf e Pepe Carvalho) Kòstas Charìtos non è un buongustaio, non cucina e non ha con il cibo un rapporto molto diverso da quello della gran parte di noi: di assoluta, banale normalità. Mangia perché ha fame, e più che altro perché ha una moglie che cucina. E mangia quel che passa il convento. Non che non abbia le sue preferenze, ma, uomo medio quant’altri mai, Charìtos è affezionato ai piatti classici della cucina greca. Quelli che già gli cucinava la madre (e, infatti, rievoca a un certo punto gli scontri epici che ci devono essere stati tra lei e Adriana), quelli che ha sempre mangiato. Che sono i ghemistà, il moussakà, il souvlàki con la pìtta e via discorrendo. Inoltre, ha anche qualche preferenza che può inquietarci. Ad esempio, pare che gli piaccia particolarmente la ciofeca del baretto in piazza Aghìou Lazàrou, o il caffè un po’ greco e un po’ no della Centrale di polizia. Il caso della Centrale è particolarmente preoccupante perché Charìtos dichiara di amare anche la loro brioche industriale incellofanata. Hmm, la cosa meriterebbe un’indagine più approfondita, se non fosse che la soluzione è a portata di mano. Basta guardare dentro noi stessi: a ognuno di noi (e, direi, specialmente a noi maschi) piace una serie di cose che non piacerebbe a nessun altro (e ci mancherebbe!): la nostra vecchia macchina che ha un odorino tanto particolare; la poltrona con i braccioli lisi da cui comincia a uscire un po’ di gommapiuma; quella giacca stazzonata e consunta che non smetteremmo mai; le cene di avanzi, quando sono i nostri avanzi; quel po’ di bruciaticcio nella pentola, quando è il nostro bruciaticcio. Si narra che individui immensamente ricchi vadano in giro, e si presentino anche a incontri formali, con scarpe sformate e a malapena risuolate. Non è, insomma, una questione di disponibilità economica. È questione di pigrizia, chissà, forse del nostro rapporto con la mamma, o del fatto di aver abitato in una casa grande e fredda o piccola e intima… insomma è una questione di cuore e di quella dimensione dell’affettività che tende un po’ al masochismo. Proprio di questa tentazione irrefrenabile al masochismo, Charìtos ci dà continuamente saggio. Quando si dispiace perché al baretto di Aghìou Lazàrou (appunto) non lo serve il solito cameriere ingrugnito e sgarbato, ma una ragazzina fresca e sorridente; quando, invece di scendere giù al bar della Centrale e farsi fare un altro caffè, caldo, decide di bersi quello freddo; quando flirta con l’idea di restare a sobbollire nella canicola ateniese piuttosto che trasferirsi al fresco dell’isola; quando, invece di fare subito una domanda cruciale, aspetta che il tuo interlocutore gli racconti altre mille storie stravaganti per gustare la spiacevole sensazione di ansia, e di incertezza. Credo che sia per questo che il commissario Charìtos, sia quando ha a che fare con un giro di riciclaggio di denaro sporco come in Difesa a zona, sia quando si occupa di una strana e bizzarra serie di suicidi che pare paradossalmente legata ai cantieri per i Giochi olimpici di Atene 2004 come in Si è suicidato il Che, è così amabile. Perché non è assolutamente diverso dal peggio di noi. Ha qualcosa da insegnarci - come tutti gli investigatori che si rispettino - sull’eterno conflitto tra bene e male, ma lo fa senza salire in cattedra, a partire dalla sua assoluta normalità (come dire, a partire dalla sua, e nostra, inguaribile mediocrità). Ed è per questo che in lui ci riconosciamo, placidamente, con quella tranquillità che deriva dal sapersi comunque dalla parte giusta e che ci permette di mostrare una parte di noi che, generalmente, terremmo nascosta.
Andrea Di Gregorio