Tradurre Màrkaris mi ha confermato una volta di più in una mia vecchia convinzione: ovvero che "l'italiano comune", (per dirla con Luca Serianni, grande linguista, autore della migliore grammatica italiana in circolazione (Italiano, Garzanti 2000), "quello che chiunque scrive (o dovrebbe, o vorrebbe scrivere) e che non è solo scritto ma anche parlato dalle persone colte in circostanze non troppo informali", ha un livello di uniformità e di normatività superiore al corrispettivo livello del greco.
La questione è complicatissima, e interessa una gran quantità di fattori storici, ovviamente, ma anche sociologici, per dir così, che influenzano la sintassi e la grammatica delle due lingue e di cui non è questa la sede per parlare.
Ma è ovvio che, in una traduzione, bisogna tenerne conto e proporre, operativamente, una qualche soluzione, seppure provvisoria e sempre, per dirla con Popper, falsificabile.
Restringo le questioni a quattro, che mi paiono esemplificative.
- I pronomi pleonastici. Tutti conoscono l'antica diatriba sui pronomi pleonastici, di cui in italiano si fa grande uso, ma che allo stesso tempo vengono spesso anche duramente stigmatizzati. Il parlante italiano medio ha, nei confronti dei pronomi pleonastici, un atteggiamento piuttosto ambiguo: Li fustiga in espressioni come: "A me mi piace il gelato", e sembra, invece, farsene vanto in altre, come: "Di questo argomento dovremo parlarne ancora".
In greco, invece, la questione non si pone. Frasi come (traduco letteralmente): "Mio fratello mi ha mandato a me una lettera", oppure "A Adriana, quel modo di parlare non le piaceva affatto" sono perfettamente grammaticali. Come regolarsi in un caso come questo? Se opto per eliminare il pronome pleonastico ottengo, da un lato, una maggiore aderenza alla correttezza grammaticale e sintattica dell'italiano, ma perdo indubbiamente in enfasi. Se mantengo il pleonastico creo una frase che, in italiano suona indubbiamente troppo colloquiale, ai limiti del solecismo, mentre in greco non ha questa connotazione.
- Il doppio soggetto non espresso. Un'altra caratteristica del greco standard è la possibilità di creare frasi complesse in cui non si sente la necessità di segnalare il cambio di soggetto. Traduco, di nuovo, letteralmente: "Il commissario le fece presente che se andava a Liossia avrebbe corso grossi rischi". Chi doveva o non doveva andare a Liossia? In italiano standard questa frase, se ammettiamo che sia sintatticamente corretta, può avere solo un significato: "Il commissario le fece presente che (lui) non sarebbe andato a Liossia perché era troppo rischioso". Come si comprende dal prosieguo del testo, invece, è la signorina Karamitri che farebbe meglio a non andare a Liossia. Ora, che fare? Se esprimo il soggetto, come la sintassi italiana impone, allungo la frase, la diluisco e perdo di rapidità, di icasticità. Se, invece, non lo esprimo, corro il rischio di non farmi capire. Se, ancora, la modifico, corro il rischio di complicarla.
- Il passaggio dal "voi" al "tu". In questo caso, più che il sistema linguistico, a creare un problema di traduzione sono le convenzioni sociali. È indubbio che i greci usano molto più di frequente il "tu", rispetto alla forma di cortesia (che è il "voi"). C'è, in quest'uso del tu, a volte una chiamata a correo ("Commissario, lo sai anche tu che la vita è dura per gli onesti"); a volte, invece, una certa sprezzatura, quasi un'intimidazione; altre volte, ancora, un residuo di quell'immediatezza che fu degli antichi greci e dei romani prima dell'impero. Anche in questo caso, la soluzione non è scontata. Seguire pedissequamente il greco può portare a fraintendimenti, perché, in italiano, nessuno darebbe del tu a un commissario di polizia, (a meno di non essere in una situazione di grande drammaticità e violenza). Forse solo un analfabeta di ritorno o uno straniero con poca dimestichezza con le nostre consuetudini linguistiche e le buone maniere. Del resto, però, perdere questo tu, fa perdere quell'icasticità, quella non-convenzionalità che è così tipica della lingua e della società greca.
- L'ultima questione che pongo (ma ce ne sarebbero altre, come ad esempio la ricchezza di frasi ellittiche o di costrutti anacolutici o, ancora, i "salti temporali" e l'uso modale di alcuni tempi verbali), è l'uso del greco antico e delle citazioni dotte. L'uso del greco antico nella società greca contemporanea è di gran lunga più diffuso e consapevole di quanto non sia l'uso del latino in Italia. Del resto, il rapporto che c'è tra latino e italiano (che sono due lingue diverse e distinte tra cui esiste una forte soluzione di continuità) è del tutto diverso da quello che c'è tra greco antico e greco moderno: qui, infatti si tratta della stessa lingua, che si è evoluta, ma che mantiene nel tempo, sebbene modificate, quasi tutte le sue originarie strutture portanti. Ecco quindi che, volendo rendere una citazione proverbiale dal greco antico, che per un greco moderno è immediatamente comprensibile, mi sono posto il problema di come tradurla. Se l'avessi tradotta in latino, l'avrei allontanata; se l'avessi tradotta in italiano tout court l'avrei banalizzata. Potevo trasformarla in una citazione dantesca, e certo ne avrei mantenuta la patina di "antichità", e allo stesso tempo di identità linguistica, ma avrei creato, per un altro verso, una specie di non sequitur…
Senza entrare nello specifico di tutti questi problemi, in generale, posso dire che un'ipotesi sicuramente praticabile sarebbe stata quella di normalizzare la traduzione. Elevarne leggermente il tasso di letterarietà, la politezza. Scegliere un registro medio che appiana le asperità e permette una lettura sostanzialmente corretta, anche se un po' anodina. È un'operazione costante, del resto, nel tradurre la poesia greca (e questo sarebbe, di per sé, un argomento interessantissimo da trattare).
Io ho preferito, invece, mantenermi per quanto possibile (e, naturalmente, anche con scelte che possono essere discutibili) il più vicino alla colloquialità, e al colore del greco contemporaneo. Consapevole anche di quel che afferma Eco, nel suo Dire quasi la stessa cosa: ovvero che ogni traduzione è una negoziazione, in cui è praticamente impossibile conservare tutto. Qualcosa si deve perdere per mantenere quel che si ritiene più importante. A me, le cose più importanti da conservare sono sembrate:
- La fluidità e scorrevolezza del testo in italiano.
- Il mantenimento del colore e del ritmo originari.
Quanto ho perduto per conservare questi elementi e se, poi, sono riuscito nel mio intento non sta a me dirlo, ma al lettore.