Autore:
Ian Rankin
Traduzione di:
Anna Rusconi - Gialli - Letteratura americana
Pubblicazione:
15 marzo 2005
Inauguro questo giro minimo per la traduzione di Ian Rankin con due righe tratte da una recensione di gennaio di Casi Sepolti (Longanesi, 2005), dove l’‘estensore cita - o gioia, o gaudio! - la traduttrice per nome e cognome, e spende pure due parole sul suo lavoro. Troppa grazia. Il suo, di nome, la traduttrice invece non lo farà: la categoria critici e recensori non avrà certo a patirne, per una volta, e dalla laconica condiscendenza delle due righe in questione qualcuno potrà invece divertirsi a risalire al personaggio misterioso. Che scrive: "… quei dialoghi secchi, pieni di battute allusive e di colpi rovesci tipici della conversazione anglosassone e difficili in italiano (la traduttrice Anna Rusconi se la cava abbastanza bene)". Una volta li chiamavano professori di manica stretta.
Ma, eccessi di generosità a parte, il nostro ha ragione. I dialoghi sono, se non l’unica, senz’altro la principale e più interessante sfida della scrittura di Rankin. In altri termini, quella più divertente da affrontare. Perché tradurre Ian Rankin è un vero piacere, e quando penso a John Rebus so, fortissimamente so, di averlo conosciuto di persona: il nostro ispettore ha la faccia di Ian, la sua giacca, le sue mani, la sua camminata, la sua scontrosa simpatia. Altroché John Hannah.
Ma torniamo a bomba: i dialoghi di John Rankin Rebus. La sfida non sta in irriproducibili giochi di parole che costringono il traduttore a equilibrismi azzardati, invenzioni poco convincenti, soluzioni tirate per i capelli, né in battute esilaranti e clamorose in inglese che rischiano di sgonfiarsi di colpo in italiano, né nel ricorso a impenetrabili corruzioni lessicali e di pronuncia, a espressioni gergali e slang irreperibili, a riferimenti intertestuali culturalmente impervi. Qualche strizzatina d’‘occhio agli ultraquarantenni con trascorsi da rockettari e timide ambizioni di apertura verso la scena musicale contemporanea, d’‘accordo. Ma la difficoltà di tradurre Rankin sta, soprattutto, nel restituirne il passo.
E per passo intendo qui la risultante finale del rapporto interno tra le battute di dialogo, di quello interno-esterno tra le parti dialogiche e narrative, e di quello dialettico complessivo tra le voci dei protagonisti. I dialoghi di Rankin, infatti, non solo reggono in virtù del contesto, ma sorreggono il contesto stesso: si fanno struttura, scheletro, muro portante. Se descrizioni e plot convergono, per necessario respiro narrativo, verso i dialoghi, altrettanto vero è che dai dialoghi si irradia spesso la forza, l’‘energia fisica su cui plot e descrizioni crescono.
In questo senso, tradurre bene i dialoghi di Rankin diventa un compito fondamentale. "Battute allusive" e “colpi rovesci”, diceva il recensore innominato. Ma non solo. La sottigliezza pervasiva dell’‘ironia e del sarcasmo che prima di quelle battute alle battute conduce; e il ritmo non stralunato ma incalzante che tra le voci rimbalza senza mai esaurirsi, creando diversificati spazi di complicità tra il lettore e i protagonisti, abbozzando ritratti e modellando intelletti di spessore palpabilmente vario, raccontando insomma un’‘intera umanità anche attraverso torpori e défaillance del verbo che non sono mera spalla per i guizzi delle intelligenze più vivaci e accattivanti, bensì loro complemento di pari dignità.
Il divertimento, insomma, e con esso la gratificazione del traduttore, non sta nella singola trovata, nella felicità di resa di un “colpo rovescio”, nella soluzione isolata, ma nella più ampia e distesa tenuta dei rimandi intratestuali, nell’‘intima coesione tra ruolo e voce, negli echi e nelle risonanze che i vari dialoghi instaurano tra loro, nella continuità delle intelligenze che abitano i libri di Ian Rankin - e qui io speriamo che me la cavo davvero.
Se non ho detto di cosa parla Casi sepolti, se è bello o brutto, più riuscito o meno riuscito degli altri romanzi di John Rebus, me ne scuso: tanti lo hanno già fatto al posto mio, ripeterei senz’‘altro cose già scritte. In qualità di traduttrice dirò invece che, se Faulkner si chiedeva “Ma come fanno quelli che non scrivono? Non si intasano?”, Rankin costituisce ogni volta una piacevolissima e salutare seduta di purificazione delle mie arterie linguistiche.