Traduzione da: Letteratura tedesca / traduzione di Anita Raja, Monica Pesetti, Paola Sorge
Con uno sguardo diverso non è affatto una lettura semplice soprattutto se non si è già letto qualcosa di Christa Wolf e se non si conosce la sua storia. Si rischia di rimanere completamente spiazzati, si ha l’impressione che si stia trattando di una narrazione in forma sperimentale. Almeno nella prima parte. Dopo essere entrati in sintonia con il libro, emerge chiaramente una figura di donna che ha vissuto con consapevolezza le vicende del suo tempo. Con uno sguardo diverso è infatti una raccolta di racconti autobiografici, dal 1996 al 2004, in cui l’autrice pone in rassegna un passato di politica, persone e luoghi che adesso guarda e racconta «con uno sguardo diverso».
Non conoscevo questa scrittrice, ma di questo libricino mi ha colpito subito lo stile delle prime pagine. Incuriosita di riuscire a decodificarne la struttura, ho voluto leggerlo. Non ne sono rimasta delusa, affatto. Alla fine quel che rimane è il dispiacere che sia finito troppo presto. I racconti sono suddivisi in quattro parti, nella prima è evidente la forma narrativa sperimentale, priva di punteggiatura, con le maiuscole ma senza il punto, quello che aiuta è il ritmo. Non è una lettura veloce. La punteggiatura è sostituita dalle maiuscole, e le virgolette del discorso diretto sono sostituite dal fatto che l’intera frase è sempre tutta in maiuscolo, a sottolineare la pronuncia ad alta voce.
Nella seconda parte la Wolf dedica due racconti al marito, come gesto d’affetto per il 70° compleanno di lui. Racconta con grande e spassosa ironia il loro spaccato di vita insieme, con un punto di vista assolutamente dalla parte delle mogli, descrivendo attitudini, premure e controversie, tra fiducia e stima, timore e rispetto, amore e affetto, dove le decisioni di lui hanno sempre la meglio. Raccontando di lui, Christa Wolf si rapporta a lui e racconta anche molto di sé, e quasi che il loro sia ormai uno stile di vita in simbiosi, come spesso succede nei matrimoni tra due scrittori.
I racconti riportano anche lo sguardo sui soggiorni in America, dove la Wolf mette a confronto l’effetto linguistico dell’inglese rispetto al tedesco e viceversa, naturalmente anche in chiave storico-politica. Nelle vicissitudini della Germania dell’est alcune parole hanno assunto un significato più intenso rispetto al corrispettivo in inglese. Considerazioni che affiorano spesso nei romanzi degli scrittori migranti esteuropei contemporanei, quando scrivono e affermano che per loro è più facile scrivere in una lingua che non sia la loro perché sentono meno il peso di alcune parole. Un concetto spiegato molto bene da Dubravka Ugrešić in Il ministero del dolore (Garzanti, trad. di Lara Cerruti) e affermato altrettanto bene da Ornela Vorpsi in varie interviste. E anche qui, complice un soggiorno all’estero, Christa Wolf, tedesca dell’est, si ritrova a sottolineare lo stesso effetto della «lingua straniera come nascondiglio».
«[…] Lingua. A poco a poco comincio a riflettere sulle differenze tra il tedesco e l’inglese, per lo meno nell’uso limitato che sono in grado di farne. Quanto è più semplice dire I am ashamed rispetto a Ich schäme mich, mi vergogno, parole con un significato identico, un suono quasi identico, eppure il tedesco arriva dritto alle radici della mia sensibilità, si avvicina di soppiatto, le lambisce, le alimenta perfino, ma le colpisce anche, dolorosamente, allo stesso modo per me il termine inglese “pain” non riuscirà mai a esprimere il dolore con cui ho a che fare, posso dire it is painful con una certa serenità, con la leggerezza di una bugia, mentre sudo freddo al solo pensiero di dover dire es tut weh, fa male, e nel dirlo pensare alle cause di quel dolore, come può “conscience” sostituire il termine tedesco per coscienza, una parola che ha in sé il rimorso e anche la certezza, quando la coscienza è stata violata, certezza della mancanza di coscienza, è impossibile ingannarsi su una cosa del genere, e a cosa mi serve tradurre “rimpianto” con “rammarico”, ossia “rimpiango di” con “I regret”, he ― or she ― regrets what he (she) has done” […]».
Dori Agrosì