Traduzione da: Letteratura ucraina - Traduzione di Lorenzo Pompeo - Articolo di Gianfranco Franchi
Siamo nella città di Charkiv, la seconda più abitata in Ucraina, uno dei centri industriali e culturali più importanti. Qui si tifa Metalist. Risse incluse. 1993, un mondo in disfacimento. Vodka a tutto spiano e disordini, violenza e povertà, spaccio di droga e cameratismo. Sesso in secondo piano – con le donne questi ragazzi non riescono a parlare – e intanto si registra un lento avanzamento dell’americanismo: riviste, businessman, sacerdoti bluesman. L’infiltrazione è in atto. Sembra sia un processo irreversibile.
Depeche Mode è un libro giocato per frammenti fulminanti o bruciati, bozzetti di adolescenti brancaleoneschi, fotografie della gioventù d’una nazione nel momento del passaggio da un mondo a un altro. Il nemico sono le guardie e i controllori, i temuti e lontani militanti ceceni, ma anche l’interpretazione sovietica, limitata e arcaica del vangelo di Marx: estranea al suo carteggio con Engels. E alle sue esperienze psicotrope.
C’è chi giura che il KGB sia una finzione. Che non serva a niente, come le dogane e la burocrazia. Intanto, Molotov è solo l’ingombrante busto di un edonista. Fa paura alle ragazze. Intanto, gli adolescenti ucraini degli anni Novanta avanzano oltre la loro linea d’ombra. Pensando che, col nuovo look, Dave Gahan può ricordare Trotsky. O Castro giovane. Anche.
Completano il libro dettagliate istruzioni per preparare ogni tipo di esplosivo (si tratta di un utile opuscolo à la Palahniuk), e discrete reminiscenze della letteratura etilica di Erofeev. Limitano l’opera la sua natura frammentata e frammentaria, l’imperfetta resa d’un romanzo concepito, probabilmente, come corale o da performance, la sconnessione e qualche sbalzo temporale eccessivo. Spesso si fa fatica a raccapezzarsi: ma la curiosità di avanzare tra le pagine di uno scrittore ucraino della nuova generazione è troppo forte.
Quello di Zhadan è un furioso disordine espositivo con pochi precedenti – letteratura psichedelica o etilica esclusa. Come già osservava Zagrebelny nella postfazione all’edizione ucraina, certe sperimentazioni spericolate – come un ossessivo flusso di coscienza, spezzato e poi di nuovo tracimante – costituiscono un rischio; possono complicare la lettura, sospendendola e frammentandola. Sospetto queste sperimentazioni abbiano sofferto molto in sede di traduzione, almeno in qualche frangente. Il ritmo, e forse una parte considerevole del sottotesto, è forse andato periodicamente perduto; così, ma forse era intenzione autoriale, la linearità della trama.
Zhadan è il referente primo, tra i giovani letterati ucraini, per discutere di cultura e politica del suo popolo. Scopriamo un capofila e un leader, un artista dalla forte personalità. In una recente intervista, ha dichiarato: «Nell’ultimo decennio e mezzo l’Ucraina è decisamente cambiata. Le rovine del comunismo si sono dissolte, nel frattempo il comunismo s’è fatto leggenda e s’intravedono le prime rovine del capitalismo. Oggi la mia Nazione pratica un giovane, energico turbocapitalismo ibridato a elementi socialisti; con discreto desiderio di animare un Paradiso. È un momento cruciale per lo sviluppo della nostra terra. Qualcosa che s’avvicina allo spirito europeo nel momento di transizione tra medioevo e Rinascimento». Potente, no? E fertile. Speriamo.
«Io non credo nella memoria, non credo nel futuro, non credo nelle profezie, non credo nel cielo, non credo negli angeli, non credo nell’amore, persino nel sesso non credo, il sesso ti rende solo e indifeso, non credo negli amici, non credo nella politica, non credo nella civiltà, va bene, se prendo le cose più in dettaglio, io non credo nella chiesa, […]. Ma al contrario credo, o meglio, so dell’esistenza lassù, proprio lì, dove di tanto in tanto cambia il tempo, dal bello al brutto, io so dell’esistenza di qualcuno lassù che mi trascina per tutto questo tempo verso la vita, che mi ha tirato fuori dai miei maledetti anni Novanta e mi ha proiettato oltre, perché io tirassi avanti con la mia vita, qualcuno che non mi ha fatto scomparire solo perché, secondo lui, sarebbe stato troppo facile».
Gianfranco Franchi