Traduzione da: Federica Oddera - Traduzione dall’inglese
«Quando scrivo in inglese» dice Panos Karnezis sull’Independent «ho in mente un ritmo, una sorta di musica rap. Ho bisogno di scandirlo prima di mettermi al lavoro, e poi ho la sensazione che la pagina scorra seguendo questa cadenza. Quando traduco, nella maggior parte dei casi quel ritmo si perde, o si trasforma in una musica diversa.» Ecco una delle tante impasse della traduzione, di cui Karnezis, greco trapiantato in Inghilterra per studiare ingegneria e divenuto quasi per caso scrittore in una lingua non sua, è ben consapevole, visto che è lui stesso a ricreare la propria prosa nella lingua del paese dov’è nato. La traduzione è un’avventura destinata comunque a un parziale fallimento, votata fin dall’inizio a essere «quasi la stessa cosa», per dirla con Umberto Eco. E al pari di tutte le avventure rischiose, comprese quelle che danno forma alle nostre vite (le relazioni con gli altri, i rapporti con le persone più vicine, figli e compagni) è anche un’esperienza straordinaria. Tradurre un libro significa ripercorrerne la stesura, camminare al fianco dell’autore e seguirlo passo passo, ascoltarlo attentamente, ripetere le sue ricerche, risalire alle stesse fonti, girovagare insieme a lui nel suo universo intellettuale. Significa, almeno per qualche mese, «diventare» il suo libro, un po’ come succedeva ai personaggi di Farenheit 451. Significa, nel nostro caso, perdersi nel Labirinto di Karnezis. Ambientato nell’Asia Minore del 1922, il romanzo narra le vicissitudini dei sopravvissuti di una brigata greca sconfitta dai turchi, in fuga dal nemico verso la salvezza e verso il mare, finché il contingente, ridotto allo stremo, non approda in una piccola città poco lontana da Smirne da cui riesce a raggiungere la costa. Entrare nel Labirinto vuol dire tornare all’epoca della spedizione in Anatolia, subito dopo il primo conflitto mondiale; rivivere l’imperialismo di quegli anni e le delusioni di una campagna fallimentare finita con la ritirata degli invasori e l’esodo dei profughi greci di ritorno nella madrepatria. La guerra e le sue tragedie, l’imperialismo, l’invasione di un esercito cristiano in terra musulmana, i profughi: temi, come fa rilevare l’autore stesso in un’intervista rilasciata al Salone del Libro di Torino, tuttora attualissimi, che ai miei occhi di traduttrice impegnata in questo momento con gli ultimi saggi di Arundhati Roy sembrano adombrare minacciosamente i problemi più scottanti che affliggono il nostro mondo. Ma addentrarsi nel labirinto significa anche avventurarsi nello spazio senza tempo del mito. Non solo per i frequenti richiami alla mitologia greca che appassiona il comandante della brigata: i personaggi del romanzo hanno contorni fortemente simbolici e archetipici (tanto che spesso non ne conosciamo neppure il nome) e ricordano le maschere del teatro classico: c’è il generale tutto preso dalla logica della guerra e della disciplina; il maggiore idealista e votato segretamente alla causa del comunismo; il medico filantropo; il cappellano aggrappato a una fede cieca e assoluta; l’aviatore edonista e aristocratico; la prostituta; il sindaco corrotto e arrivista; il maestro di scuola deluso dalla vita; il giornalista senza scrupoli. Non è forse casuale se il libro si articola in tre parti (tre classici atti teatrali: il deserto; la città; il mare) precedute da un prologo e seguite da un epilogo, secondo le più canoniche indicazioni aristoteliche. E a fare da coro ci sono i soldati della brigata e la popolazione della cittadina anatolica. C’è una dimensione intensamente allegorica nel romanzo, su cui insiste l’autore stesso: « Credo che il mio libro sia molto più rivelatore se letto come allegoria» ha detto Karnezis a Torino. Il labirinto non è solo il deserto dell’Anatolia e la difficoltà di uscirne, il labirinto è anche la ricerca della salvezza in un mondo in cui la realtà è ingannevole e sfuggente, le cose non sono quello che sembrano e «le ideologie» (scientifiche, politiche o religiose) «nel corso del libro perdono ogni sorta di giustificazione» (sono di nuovo parole dello scrittore). Il generale tutto d’un pezzo è in realtà un uomo distrutto e schiavo della morfina; il maggiore in apparenza eroico e ligio al dovere è il sovversivo che fin dall’inizio della spedizione sobilla la truppa; il pio cappellano è un ladro; gli sforzi umanitari del medico sono continuamente vanificati dalla guerra; le ambizioni intellettuali si incarnano in un maestro di scuola senza prospettive e in un giornalista cinico; la storia e l’arte, simboleggiate dai resti di un’antica città, finiscono smantellate per trasformarsi in fortificazioni contro gli attacchi delle bande musulmane; gli sforzi politici del maggiore sboccano nella disperazione; le ambizioni missionarie di padre Simeon non sono che velleità irrealistiche; la spensierata bellezza dell’aviatore sfocia nel tradimento; i sogni d’amore e di giustizia del caporale finiscono con la fucilazione; l’amore è inquinato dall’ipocrisia, oppure sbocca nell’omicidio, o spinge le sue vittime tra le braccia di una prostituta indifferente, o, ancora, si manifesta in rapporti che sfiorano il grottesco: la liaison epistolare tra il caporale e la sua fantomatica corrispondente – in realtà un baffuto commissario comunista di Salonicco – o l’affetto tra il giardiniere arabo gobbo e la cameriera della prostituta, costretta dalla padrona a mortificare la propria femminilità e a vestirsi come una suora. Il racconto stesso comincia sotto il segno della morfina e si chiude con un’ultima dose di droga: per sterilizzare la siringa il generale brucia i libri del maggiore («Ma chi mai vorrebbe vivere in un mondo governato dai filosofi?») e nella nebbia indotta dall’oppiaceo anche la visione salvifica del mare assume i contorni di un ultimo inganno. In questo vortice di sconfitte, sullo sfondo del tracollo militare, sono le circostanze più paradossali (spesso con l’involontario intervento degli animali, strumento irrazionale del fato) a segnare le svolte della narrazione e a mettere in moto il destino dei protagonisti: la liberazione di un cavallo permette alla brigata che ne segue le tracce di sterco di arrivare alla città e alla salvezza, e nello stesso tempo conduce all’arresto del maggiore sovversivo; il cane del cappellano, credendo di giocare, sventa il tentativo di diserzione del caporale – l’unico accolito dal maggiore – e lo condanna al plotone di esecuzione. Il mondo di Karnezis è un continuo intreccio di tragedia e commedia, fantasia e realtà, allusioni simboliche e puro divertimento narrativo, in un amalgama che ha spesso evocato il realismo magico e a me ricorda certe visioni oniriche del surrealismo e di Chagall: gli autocarri del convoglio militare sembrano scarabei in marcia; l’infermeria è un tendone da circo adorno di sagome di animali che proiettano sui feriti ombre bizzarre; la tempesta di sabbia trascina via le uniformi degli ufficiali e le fa veleggiare verso la costa come strani aquiloni salutati con reverenza dai cristiani e presi a sassate dai musulmani; il dispensiere della brigata, ex-cuoco di bordo, ricorda visioni di sirene e catture di pesci enormi e squisiti; un diluvio apocalittico allaga il campo, squarcia una tenda «come l’addome di un animale sventrato» e seppellisce il cuoco e il cappellano in una valanga di fango; la città dell’Anatolia viene inondata prima da un’alluvione di fiori e poi – dopo l’esecuzione dei due sovversivi – da una sinistra pioggia di sabbia rossa; una vasca da bagno grande quanto una barca ha attraversato mari e oceani prima di approdare in Asia Minore dal Messico; la chiesa abbandonata della città trabocca di topi; l’ultima marcia della salvezza verso il mare è guidata da un adulto in pantaloni corti alla testa di una torma di ragazzini in uniforme da scout. E questo è solo un piccolo elenco. Quello del romanzo è un mondo composito, fatto di pezzi disparati e raccolti qua e là come quelli che i derelitti del labirintico quartiere arabo recuperano tra i rifiuti della città anatolica: «sono una specie di rigattiere quando si tratta di scrivere» dice di se stesso Karnezis sull’Independent. E il suo stile di scrittura, che spazia dai primissimi piani e dai particolari più minuti ai campi lunghissimi e alle riprese aeree, richiama spesso le tecniche del cinema. Così il prologo del romanzo ci offre la visione dall’alto della città anatolica abbandonata per poi scendere a osservarne la desolazione sempre più da vicino, e l’epilogo ci accompagna in una zumata nella direzione opposta: dal saccheggio nelle case deserte al cielo sereno dell’Anatolia. L’autore (ancora sull’Independent) si descrive come «un regista che impugna la macchina da presa e riprende particolari e scene a tutto campo, inquadra il paesaggio e poi i personaggi e le loro espressioni. È come guardare un film che dura un anno e mezzo. È questo il piacere della scrittura». Un piacere che si comunica intatto anche ai lettori.
Federica Oddera