Traduzione da: francese / traduttore: Gaia Amaducci / autore: Najwa Barakat / editore: Epoché, 2009
“L’inquilina”, di Najwa Barakat, scrittrice e giornalista libanese che risiede a Parigi già dal 1985 è il suo primo romanzo a tutti gli effetti “da migrante” poiché il primo che scrive interamente in francese. Leggendolo si capisce che la scrittura sgorga come forma di liberazione dalla rabbia per l’esilio e da tanti altri sentimenti provocati dalla lontananza forzata, ad affrontare una quotidianità difficile, sedentaria e solitaria. Nell’intento di scrivere in prima persona, l’autrice sembra voler dare voce a coloro che non accettano la condizione di esuli di guerra, o politici, che non accettano un altrove da costruire al di fuori della propria terra. Che cadono in una vita passiva. Naturalmente i pochi contatti con i propri cari (anch’essi esuli in posti lontani) avvengono attraverso il telefono o la posta elettronica. Da una parte descrive un mondo chiuso in un monolocale, il suo, in cui trascorre la maggior parte delle giornate. Immagina orizzonti inesistenti, trasforma la natura delle cose in qualcosa di più grande. “L’inquilina” pertanto non è un diario personale dell’autrice, ma un romanzo basato sull’esercizio autobiografico come espediente da cui prendere spunto e proseguire nella narrazione. Vengono perciò annotati avvenimenti reali, poi caricati da una notevole fantasia. Parallelamente è un valido strumento per esprimere il sentimento dell’esilio di coloro che “vivono in un altrove, nel regno degli Hematlos”, la nostalgia, le “acque agitate della solitudine”, la precarietà, il multiculturalismo e descrivere i connazionali. Si arriva a leggere frasi lunghissime di insulti come se fosse una canzone rap. Ad esempio quando armata di ironia e senza intenzione di offendere scrive: “Gli arabi sono senzapalle, imbecilli, intolleranti, pigri, stupidi, vigliacchi, mediocri…” Come in alcuni show di satira politica o qualcosa di molto simile.
Najwa Barakat avverte il lettore sin dall’inizio che non metterà nemmeno una data, è un libro impersonale sull’esilio, non ha bisogno di date, come se stesse prestando la propria voce ad altri: “A cosa serve precisare una data? Io vivo in una parentesi. M’importa solo di quel che c’è al suo interno. Allora afferro la parentesi, la apro”, l’autrice apre perciò la porta della sua vita all’interno del suo monolocale, abitato e arredato da “esilio”, “nostalgia”, “solitudine”. Reinventa se stessa partendo da una “dieta linguistica”, scrive in francese, e il monolocale diventa “il laboratorio sperimentale” dove tutto ciò che succede passa al setaccio dell’esercizio autobiografico: le conversazioni con gli amici fuggiti per il mondo, con la famiglia rimasta a casa, la paura dei ratti che si presentano, i testimoni di Geova allontanati attraverso il citofono. Arriva però il momento della presa di coscienza in cui non può più fare a meno di rendersi conto che barricarsi in casa completamente non è un modo di vivere adeguato per un umano. Produce profonda tristezza e insonnia. Il laboratorio sperimentale sta cominciando a dare le prime risposte nette e la metafora iniziale dell’esilio e dell’omissione delle date trasforma la “parentesi” iniziale in “fotografia”. “A che serve precisare una data? Io vivo in una fotografia”, dove l’unico oggetto animato è un pallone color arcobaleno, metafora del tempo che si muove, salta e rimbalza, come se qualcuno lo avesse appena lanciato per perpetuare il gioco dell’esistenza.
Dori Agrosì