Traduzione da: Ombretta Giumelli - traduzione dall'inglese
In ogni pagina l’autrice si mette a nudo di fronte al lettore, e questo atteggiamento così onesto, di amore incondizionato verso la scrittura è la prima cosa che resta dalla lettura di Le cose che non ho detto.
Azar Nafisi sembra accarezzare il viso del lettore e trasportarlo in una commozione lunga trecento pagine. Ci sono lunghe pagine che riguardano l’Iran, il rapporto con la tradizione, l’importanza della tradizione nella suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia e poi della società. È una confessione e un tentativo commuovente di riappacificazione con la storia (di famiglia e dell’Iran). Un’analisi lucida della gabbia che ciascuno di noi crea intorno a sé stesso, fatta di sogni irrealizzabili, di ricordi inaccessibili, di convinzioni ottuse.
La madre, una donna colta ma rigida e distante dai figli, vive in un passato remoto che l’allontana da tutti. La sua vita è un’altalena continua fra il presente che non la soddisfa e il passato mitizzato. I ricordi che racconta ai figli, sempre e con le stesse parole, rivelano solo una parte della verità, quella più dolce. E poi il padre, che per buona parte della vita di Azar Nafisi ha rappresentato l’altrove. Quello dei giochi, dell’immaginazione, dei libri, della spensieratezza. Ma anche l’altrove come fuga dalla personalità insoddisfatta e opprimente della madre. Un padre complice che poi sarà anche l’artefice di un tradimento.
Azar Nafisi trascina in un’atmosfera sospesa, fatta di storie di famiglia, cambiamenti politici e lotte, dolori e tradimenti. E fa della sua storia la storia di molti. Rapporti umani nel loro svolgersi e disgregarsi. La libertà e la prigionia, fisiche ma anche immaginarie.
Azar Nafisi crede nell’idea più audace e rivoluzionaria di sempre: che l’immaginazione e i libri possano cambiare il mondo.
Ed ecco il potere delle parole: “Durante la Rivoluzione avevo capito quanto fosse fragile la nostra esistenza (…) con quanta facilità tutto quello che crediamo casa può esserci portato via. E ho capito che quello che mio padre mi aveva insegnato con l’immaginazione era un modo per costruirmi una casa oltre i confini geografici e le nazionalità, che nessuno potrà mai portarmi via”.
Simona Dolce