Traduzione da: Letteratura ungherese - Traduzione di Laura Sgarioto
Nella sua opera, Márai ricorre spesso all’uso di parole chiave che fungono da vero e proprio Leitmotiv, da filo conduttore delle vicende narrate. Anche nel caso di questo romanzo, già a partire dal titolo originale ci imbattiamo in un esempio di questo tipo. Az Igazi, ovvero Quello/a Giusto/a. L’ambiguità tra maschile e femminile deriva da una caratteristica della lingua ungherese, la mancanza di genere grammaticale. Che permette una libertà di interpretazione che può forse apparire inquietante per gli spazi di vaghezza che lascia aperti, difficilmente concepibili per i parlanti di lingue romanze. Se a ciò aggiungiamo l’intrinseca polisemia del termine – igazi può significare «vero, autentico», ma anche «giusto» - comprendiamo come un titolo come questo si presti a svariate letture. Che cosa è «vero», l’amore, il matrimonio? Che cosa è «autentico», il sentimento, la passione? Che cosa è «giusto»? Il compagno o la compagna che scegliamo è davvero la persona “giusta” per noi? Queste sono solo alcune delle domande che Márai ci pone attraverso la storia di due matrimoni falliti.
Al centro del romanzo La donna giusta troviamo un motivo ormai noto ai lettori di Márai: un triangolo amoroso. Stavolta però, a differenza di quanto accade in Le braci e Divorzio a Buda, si tratta di un uomo conteso da due donne. Il volume pubblicato da Adelphi raccoglie due romanzi, scritti in due momenti diversi della carriera di Márai. Il primo, uscito nel 1941, è composto da due monologhi paralleli: nel primo Marika racconta ad una amica le vicende del suo infelice matrimonio con Péter, mentre nella seconda sarà Péter a confidarsi con un amico. Sette anni dopo Márai sente l’esigenza di dar seguito all’opera aggiungendo il monologo dell’ “altra”, Judit, completato durante l’esilio italiano. Le tre parti vengono pubblicate in tedesco nel 1949 presso l’editore J. P. Toth di Amburgo, sotto il titolo Wandlungen der Ehe. Trent’anni più tardi Márai, ormai quasi ottantenne, riprende in mano il monologo di Judit, lo riscrive in ungherese e vi aggiunge un ennesimo monologo: in quest’ultimo a parlare è l’interlocutore silenzioso di Judit, il suo giovane amante Ede, il quale fornisce una sorta di epilogo delle vicende precedenti. Il volume esce nel 1980 presso l’editore Griff di Monaco con il titolo Judit…és az utóhang (Judit… e l’epilogo). Gli eventi narrati nei vari monologhi abbracciano un arco di tempo molto ampio – senza precedenti nell’opera di Márai – che va dagli anni ’20 fino all’inizio del regime comunista in Ungheria, con un interessante scorcio dell’America degli anni ’60 vista attraverso gli occhi di un immigrato ungherese. Per quel che riguarda lo spazio, le vicende dei quattro protagonisti si sviluppano dalla Budapest degli anni ’40 attraverso l’Italia fino a giungere negli Stati Uniti, seguendo così le tappe dell’esilio dello stesso Márai.
Questi quattro monologhi offrono all’autore l’occasione di esibire la sua fine capacità mimetica, già apprezzata dai lettori italiani nell’Eredità di Eszter. Qui Márai si cala con grande sensibilità nei panni di due donne e di due uomini di temperamento diverso, di diversa età ed estrazione sociale: Marika e Péter sono borghesi dell’alta società di Budapest, mentre Judit e Ede provengono dal mondo rurale ungherese. Márai si destreggia abilmente tra i vari registri dei personaggi e attraverso le loro voci offre un quadro fedele delle tensioni sociali dell’epoca. In particolare, Marika esprime il disagio di una donna che ha vissuto in totale dipendenza dal marito, ma che infine scopre il valore di una sorta di emancipazione affettiva, e lo fa nella propria lingua di borghese di cultura media, dal ritmo colloquiale (non dimentichiamo che è seduta al tavolo di una pasticceria insieme a un’amica). Il monologo di Péter tocca argomenti più profondi: vi si alternano i ricordi di famiglia, spunto per le sue riflessioni sulla crisi della borghesia – una classe soffocata da rigide convenzioni, priva di energia vitale – sulla tensione tra le classi sociali che agitava l’Ungheria dell’epoca, sul rapporto tra uomo e donna. Il suo eloquio rispecchia la sua cultura vasta e raffinata, è più ricercato, si snoda in frasi lunghe ed elaborate, impreziosite da sofisticate metafore.
La lingua in cui si esprime Judit è semplice, piana, ravvivata da tratti popolareschi ma anche da sprazzi di una ricercatezza volutamente caricaturale – come se la donna volesse prendere le distanze da quel mondo di borghesi colti e raffinati dove ha vissuto prima da serva, poi da signora, facendo il verso ai vezzi linguistici e ai vacui giri di parole dei salotti dell’alta società. Ma la voce di Judit si illumina anche di una poeticità sincera e appassionata, ricca di similitudini limpide ed efficaci. E non si tratta di luce riflessa: la felicità del suo modo di esprimersi non deriva né dalla convivenza con un uomo colto come Péter, né dalla sua frequentazione di un letterato geniale come Lázár. Judit sa anche essere ironica, al limite del sarcasmo. È disincantata, rifugge da ogni svenevolezza. È una vera donna, egy igazi no, come Lázár fa notare a Marika nella prima parte del romanzo.
Nell’epilogo, Márai fa parlare Ede in una lingua particolarissima, tanto che si premura di aggiungere all’edizione ungherese un glossario che spiega le espressioni più desuete. Lo slang di Ede è quello del sottoproletariato urbano, intessuto di termini contadini ma anche di curiosi americanismi. Il protagonista è infatti un ragazzo di campagna ungherese trapiantato a New York, costretto a fuggire da Budapest perché ricattato dall’ÁVO (la famigerata polizia politica del regime comunista). Ede, che a Roma, tappa intermedia del suo esilio, ha vissuto una breve e intensa storia d’amore con Judit, discute con un compatriota del livello di integrazione che ritiene di aver raggiunto, senza però nascondere il proprio senso di estraneità verso certi aspetti deteriori dell’American way of life.
Il monologo/epilogo di Ede è molto più breve degli altri che compongono il romanzo: appena quaranta pagine, densissime, che pongono notevoli problemi di traduzione. La Piper Verlag di Monaco ha deciso di escludere questa quarta parte dalla recente edizione tedesca del romanzo, uscita alla fine del 2002 con il titolo Wandlungen einer Ehe, nella bella traduzione di Christina Virág. Può darsi che alla base di questa scelta vi sia semplicemente l’intenzione di ripristinare la formula dell’edizione tedesca del 1949. Ma forse a dissuadere l’editore potrebbe essere stata la “stranezza” dell’epilogo, che deriva anche dal fatto di essere stato aggiunto al resto del romanzo in una fase molto diversa del percorso creativo di Márai, e da qualche forzatura della trama (come l’incontro tra l’ormai vecchio e malandato Péter e Ede nel locale in cui quest’ultimo lavora come barista). Adelphi ha invece deciso di presentare nel suo volume Judit… és az utóhang nella sua interezza, offrendo ai lettori italiani la prima traduzione di questo singolare testo.
Laura Sgarioto