Traduzione da: francese - Traduttore: Yasmina Melaouah - nuova edizione Bompiani, 2017
Vicino a Chambon-sur-Lignon, in Ardèche, c’è un piccolissimo borgo, una di quelle entità geografiche che forse noi chiamiamo località, fra prati e boschi immersi nel silenzio. Ci sono capitata un’estate, in vacanza da quelle parti, poco dopo aver consegnato la mia traduzione de La peste.
Non ho resistito al desiderio di vedere quella vecchia grande casa di pietra, una specie di fattoria fortificata con tanto di torre quadrata, oggi con le persiane azzurre e un tappeto di erba verdissima di fronte. Proprio lì Camus ha scritto gran parte della Peste, mentre la Francia occupata era in preda al flagello della guerra. Ho camminato in quei boschi, ho fatto la strada che Camus faceva con i cani con cui aveva fatto amicizia, ho mangiato un pranzo al sacco in un prato nella radura di un bosco. Quel luogo idilliaco era stato per lui un luogo di esilio e di solitudine, un confinamento forse assai meno confortevole di quello che patiamo noi in questi giorni strani e difficili.
Ma da quei suoi giorni aspri ci è venuto in dono un romanzo immenso, che ci parla, e ci interpella, e ci conforta con parole che sono sobrie e altissime. La Peste racconta di un’immaginaria epidemia che colpisce negli anni ’40 la città di Orano sulla costa algerina. Ricorrendo all’allegoria del flagello, Camus vuole raccontare la peste bruna dell’occupazione tedesca e della guerra, e più in generale il male che periodicamente affiora nella storia, ma anche in ultima analisi quel male metafisico della condiziona umana, dell’uomo inesorabilmente condannato a morte.
La storia è molto semplice: è quella di un pugno di personaggi, un medico, un giornalista, un aspirante santo che non crede, un modestissimo impiegato comunale, i quali diventano emblemi vividissimi della comunità umana, degli uomini di buona volontà alle prese con il male, con il flagello della peste. Li vediamo lavorare ininterrottamente per accogliere i malati, curarli, accompagnarli nella morte che diventa ogni giorno più sbrigativa o strapparli dalle braccia dei familiari che non vogliono accettare la quarantena. Li vediamo stanchi e tenaci, questi quattro umanissimi e sobri eroi, e ne condividiamo a tratti i brevi momenti di sconforto: la stanchezza, la nostalgia bruciante per una persona amata lontana che il flagello impedisce di raggiungere, lo sconforto di fronte alla sofferenza, che si trasforma in rivolta quando la sofferenza e la morte sono quelle di un bambino. Ma vediamo anche come questa rivolta diventa solidarietà, e millimetrica, tignosa fatica per strappare una vita al flagello, per fare un effimero sberleffo alla morte. E poi ci sono brevi tregue – un bagno notturno dei due volontari, in una scena memorabile in cui il mare sembra davvero il liquido amniotico del ventre della madre terra in cui i due uomini sono accolti per un istante di comunione e di pace. Ci sono le lacrime di fronte a una disadorna vetrina natalizia, nel ricordo di altri Natali, più festosi e all’insegna dell’amore anziché della separazione, della solitudine e della morte.
Ma pur in questa capacità di sondare l’umano con tale sensibilità, la voce narrante nella Peste è quasi programmaticamente una voce che rifugge qualunque retorica, che prende lente vie traverse, che esita e tituba, che rifiuta qualsiasi abbellimento. Questo narratore discreto è la voce di una comunità umana colpita dal male, le cui uniche risorse sono quelle di fare ciascuno la propria parte, tenendo a bada lo sconforto e la stanchezza e sostenendosi grazie alla fiducia in un noi. “Mi rivolto dunque SIAMO”, scriverà Camus qualche anno dopo ne L’uomo in rivolta. Ed è proprio questa rivolta contro il male a saldare gli uomini, a dar loro una patria tutta terrena in cui, per citare le parole di Francesco “nessuno si salva da solo”.
La sobria asciuttezza di tante pagine si scioglie a tratti, quando il sentimento sembra rompere le dighe della ferrea volontà di tirare dritti, di andare avanti, a testa bassa. Sono i momenti di una umana, bellissima vulnerabilità che balugina sotto la corazza difficile che occorre forgiarsi per affrontare il male.
Muoversi sul tracciato di quella antiretorica gentile, di quel pudore, seguire le volute di frasi che sembrano camminare in punta di piedi prendendo la via più lunga – e nello stesso tempo fare avvertire il magma potente e a tratti straziante del pathos che pulsa sotto quella sobria tenuta: questa l’immensa difficoltà della traduzione.
Nei boschi intorno a Le Panelier c’è un silenzio purissimo, ogni rumore è prezioso.