Traduzione da: Letteratura svizzera (FR) - Traduzione di Maurizia Balmelli
"Io scrivo "celui-là dit:", e poi la battuta di dialogo; lui [un imprecisato traduttore, n.d.r.] ha rimesso tutto in ordine, tutto normale, come in qualsiasi libro. Gli ho spiegato che non va, che è un tradimento assoluto, non c'è bisogno di correggere il mio stile, occorre tradurre restando il più possibile vicini all'originale" ricorda Agota Kristof in un'intervista rilasciata lo scorso autunno a Libération, in occasione dell’uscita francese de L’Analfabeta, volume di brevi scritti autobiografici.
La prima volta che ho letto “Je ne mange plus” (titolo originale della raccolta di racconti, diventato successivamente “C’est égal” e in italiano “La vendetta”) ho avuto l’impressione sconcertante che quei testi mi respingessero, che non volessero "farmi entrare". Ho messo da parte il dattiloscritto - di questo si trattava: un dattiloscritto, su cui qua e là comparivano piccole correzioni a penna - e ho pensato che tradurlo non sarebbe stato uno scherzo.
Un mese più tardi l’ho ripreso. Dovevo avviare il lavoro. Stavolta non ho riflettuto più di tanto. Ho cominciato dalla prima frase del primo racconto: "Entri, dottore". E il testo mi ha preso per mano.
Ci sono autori che vanno tradotti così, credo. Autori che hanno un talento straordinario, nella cui scrittura, per quanto allucinata, per quanto a tratti ermetica - e talvolta queste pagine allucinate ed ermetiche lo sono -, non c’è una parola fuori posto, sia a livello dell’architettura della frase, sia a livello puramente lessicale. Di fronte ad autori di questo genere, più che ad altri, la scommessa è riuscire a intonarsi a loro, a intonarne il testo. Con Agota Kristof non devo pormi domande, mi sono detta. Devo semplicemente ascoltarla, accoglierla, non cercare di capire a priori cosa e soprattutto come mi sta raccontando ciò che leggo.
I racconti riuniti ne “La vendetta”, Agota Kristof li ha scritti ben prima dei romanzi che l’hanno resa celebre, e la sensazione è che, almeno in parte, si tratti di una scrittura molto privata, o forse meglio dire intima. Sono testi molto acerbi, anche - con tutta la forza che l’acerbità comporta. Ripiegati su sé stessi a tratti, possono bruscamente spalancarsi in un’espressività folgorante. Ho dunque cercato di seguirli nelle loro evoluzioni, tenendomi stretta alle loro maglie, aiutata da un rigore di fondo che certo all’inizio m’intimidiva, ma che progressivamente ho imparato a considerare alla stregua di una mappa, come se il testo stesso, con la sua justesse, la sua "esattezza", mi fornisse preziosi suggerimenti per la sua traduzione.
Il rigore di Agota Kristof, infatti, va ben oltre l’esigenza estetica. È un rigore che nasce dalla tormentata e appassionata relazione della scrittrice con il francese - sua lingua d’adozione che, come lei stessa afferma, non ha ancora finito di imparare. Un rigore che è consapevolezza dei propri limiti e al tempo stesso rivendicazione di una sensibilità linguistica molto peculiare. Un rigore che, coniugato al talento, permette all’autrice di mantenersi in equilibrio tra una lingua impeccabile e sottilissime distorsioni della stessa, scarti minimi, espressioni idiomatiche lievemente forzate, giri di frase inconsulti eppure armonici, puntuali incoerenze nell’uso dei tempi verbali. Sto parlando di un equilibrio che non sempre è possibile rendere appieno; principalmente per due ragioni molto semplici, direi costituzionali: da un lato, io non ho e non posso avere, rispetto all’italiano, la distanza che Agota Kristof ha rispetto al francese; inoltre, il francese di Agota Kristof è sicuramente attraversato dalla memoria, segnato dall’impronta di un’altra lingua, l’ungherese, che con esso ha istaurato un rapporto segreto, forse difficilmente percepibile anche per l’autrice stessa. L’unica via, quindi, è stata ascoltare il monito: resisti alla tentazione di correggere. Quanto a quell’ineffabile altrove linguistico che aleggia, come detto, ho cercato di me laisser porter, lasciarmi portare dal testo, pancia a pancia con esso… confidando in qualche proprietà osmotica del talento.
Maurizia Balmelli