Traduzione da: Taylor Hackford traduttore: Carlo Cosolo - Adattamento dall'inglese - Bristol Bay Production
Parlando di "Ray", qualcuno non ha mancato di sottolineare come, più che mai in questo caso, il doppiaggio avrebbe dovuto lasciare il passo a una bella copia sottotitolata per poter apprezzare al meglio la sonorità della molteplicità di voci e accenti della versione originale.
Che dire? È sicuramente vero. L'effetto complessivo è impressionante. Tralasceremo poi la solita polemica doppiaggio sì, doppiaggio no, evitando di chiederci perché la stessa polemica non accompagni l'uscita di ogni nuovo romanzo. Non è questa la sede. Accenneremo solo al fatto che una versione doppiata, male non può fare (soprattutto se doppiata bene). Ma ribadisco il concetto: è sicuramente vero. Raramente un film è stato concepito, nell'arco di quindici anni, in modo così musicale. Punteggiata dalle canzoni di Ray Charles, si snoda questa biografia nella quale ogni battuta, ogni intonazione è un suono che si va a combinare con altri suoni in un'affascinante armonia.
Del resto, questo del regista Taylor Hackford, è un progetto fortemente voluto, curato e coccolato per quindici anni. Un progetto presentato allo stesso Ray Charles, il quale, non solo ha dato la sua approvazione alla sceneggiatura, ma ha visto e apprezzato la sua realizzazione. Sì, "ha visto", perché - tenetevi forte - questo faceva Ray Charles: vedeva. "I can hear as you can see", "io sento come lei vede", dice Ray alla sua futura moglie Della Bea Antwine in una delle scene più belle del film. E una delle più interessanti dal punto di vista sonoro, con il "dettaglio" del volo di un hummingbird, un uccello mosca o colibrì, come è stato chiamato nel film. Siete avvertiti: in questa scena drizzate le orecchie, perché, a un certo momento, avrete la sensazione di sentire tutto il rumore di fondo convergere verso un unico punto per rivelare il battere d'ali di un colibrì. Ma Ray riesce a sentire più delle ali. "Her heart just skipped a beat." Lui riusciva a sentire il cuore del minuscolo uccello perdere un colpo.
E non è un uccello, ma un insetto il protagonista dello scoglio più insormontabile della traduzione. Un'ape (Bee) che in Inglese suona come il nome di Bea: Bi. In un momento di grande tenerezza e intimità Ray chiede alla sua futura moglie: "Della Bea. That's like a honey bee, right?" e cioè: "Della Bea. Come l'ape, vero?" Qui ci sarebbe stata bene una bella nota del traduttore, è il caso di dirlo, ma in un film non si può. Né si può tagliare o lasciare in Inglese la scena. Quindi il bravo traduttore si spreme le meningi.
C'è una prima possibilità: "Della Bea. Si scrive Bea, ma si legge Bi, vero?" Bellissima! Perfino didattica. Raggiungiamo addirittura lo scopo di spiegare al pubblico italico che anche se sentono dire Bi il nome è quello della donna angelicata di Dante. Come portare in un film americano un pezzo di Toscana. Ma c'è un piccolo problema: la suddetta Della sorride alla simpatica battuta sull'ape, e, francamente l'interpretazione fonetica del suo nome non è particolarmente simpatica o tenera.
E allora ci si lancia come un sol uomo sul territorio dell'ovvio, il terreno dove le capre e i cavoli convivono serenamente: "'Della Bea'. Come la lettera B, vero?" E Monsieur De Lapalisse fa sorridere Della, lascia lo spettatore forse indifferente, ma immune da indesiderate lezioni di pronuncia, e fa sognare al traduttore mondi in cui ogni gioco di parole sia non solo traducibile, ma candidabile al Nobel per la traduzione.
Solo una richiesta, per chiudere questo argomento: don't try this at home - non provate a farlo a casa. Se dovessi scoprire che c'erano un'infinità di soluzioni migliori della mia ci rimarrei veramente male.
Tornando al discorso iniziale, era sicuramente difficile ricreare la stessa armonia in un'altra lingua, ed è per questo che il regista Taylor Hackford ha voluto parlare direttamente con i dialoghisti e i direttori dei quattro principali paesi europei: Italia, Francia, Spagna e Germania. A ognuno ha suggerito un modo per rendere i vari accenti, in particolare quello di Ray Charles, un Florida Boy nato ad Albany e trapiantato a Greenville, un villaggio il cui nome era pronunciato dai suoi abitanti Greensville. Chissà perché.
Per l'Italia ha preso come esempio Sicilia e Calabria, per trasporre nella nostra lingua l'estrazione umile e rurale di Ray Charles Robinson e il suo registro linguistico avrebbe dovuto essere molto basso, come era del resto nella realtà. Indicazioni che ponevano una serie di problemi di non facile soluzione: primo perché sentire Ray con un bell'accento di Locri o di Mazzara del Vallo poteva essere un impatto estremamente difficile per lo spettatore e per la sua sospensione dell'incredulità, secondo perché sgrammaticature e incertezze sintattiche non sono molto ben accette in italiano, soprattutto in un film straniero doppiato. Convenzionalmente il doppiaggio mal sopporta l'uso di dialetti, se non a scopi comici o mafiosi, per così dire, però l'indicazione era molto chiara. Si trattava di sottolineare il fatto che Ray Charles aveva mantenuto il suo accento umile e il suo modo di parlare un po' buffo per tutta la vita. In una conference call lo stesso hackford metteva l'accento sul fatto che, se solo avesse voluto, con il suo orecchio da musicista, Ray avrebbe potuto imitare anche il più britannico degli accenti, eppure non ha mai voluto "tradire" le sue origini. Per tutta la vita, fino all'ultimo giorno, è rimasto il country boy, il ragazzo di campagna venuto a far fortuna in città. Trovandola, , come mostrato nel film, anche se a caro prezzo per molti aspetti.
Allora andiamolo a cercare questo registro basso e "you know what" diventa "sai che ti dico", una frase fatta, un tormentone che ricorre nel suo modo di esprimersi, con la testarda ossessività tipica delle persone umili; o "scratch a lie find a thief" diventa "chi è bugiardo è anche ladro", il proverbio, la sentenza, il riferimento alle radici popolari. Poi Ray giocava spesso a fare "the country dumb" - "lo scemo del villaggio", che, visto che scemo non era, anzi tutt'altro, significa "il finto tonto". E via praticamente tutti i congiuntivi, ma cercando di non andare giù con l'accetta, studiando costruzioni che siano naturali, ma nello stesso tempo ci suggeriscano un modo di pensare semplice. Concreto, cinico a volte, ma semplice. Perché Ray Charles era così: semplice, ma pratico fino al cinismo. Un essere umano pieno di debolezze. Le donne, la droga, il genio. Il jazz degli anni '50/ '60, quel jazz che aveva un suo gergo nel quale i "cats" non erano solo dei gatti, ma soprattutto gli appassionati di jazz, contrapposti agli "hipster", gli appassionati del bebop. E quando Oberon, il presentatore del "Rocking Chair" di Seattle, il primo vero locale dove Ray si è esibito, lo introduce, esordisce così: "Welcome, all you cool cats and...fine felines. You come to the place where the sophisti-cats and hipsters hang their bebop hats." Non volevo che il riferimento andasse del tutto perduto, non avendo noi un corrispettivo, e allora: "Benvenuti, amanti del jazz e… amanti e basta! Siete in un posto per sofistigatti e hipster. Quelli col bebop in testa!" E se a qualcuno verranno in mente gli aristogatti, forse finalmente si spiegherà perché volevano fare il jazz.
Carlo Cosolo