Traduzione da: Giallo - Letteratura islandese
Una delle cose che più mi avevano stupito in Islanda, leggendo per la prima volta i quotidiani, era stata la totale mancanza delle pagine di cronaca; avevo sempre ritenuto che la cronaca nera non trovasse humus nell'Ultima Thule e che i pochi crimini che, forse, venivano perpetrati, insieme alle sparizioni e alle morti inspiegabili, incontrassero più lo stupore e la meraviglia degli islandesi piuttosto che la loro riprovazione morale e sociale. Prima di affrontare la lettura e la traduzione di questo testo mi sono chiesta più volte come fosse possibile ambientare un giallo a Reykjavík, in questa cittadina tranquilla dall'aspetto un po' demodé, dai tassi di criminalità praticamente nulli, che raramente sale alle cronache internazionali, dove poco succede e tutto sembra fermo in un'immobilità senza tempo, stretta in una morsa di ghiaccio e di freddo, dove tutti si conoscono o sono imparentati e i criminali non sembrano avere vie di fuga, dove praticamente non esiste un carcere vero e proprio e chi ci finisce lo fa per qualche minimo sgarro alla quiete pubblica. E invece.
Arnaldur Indriðason ha un sorriso mite e gentile, mentre chiacchieriamo seduti in un caffè del centro; pensare che dietro quest'apparenza tanto anonima la sua mente produca crimini come quelli di Sotto la città e degli altri gialli che - spero per i lettori italiani - seguiranno, mi mette molto a disagio. È praticamente l'unico giallista islandese (e giallista per caso, come lui stesso afferma: solo dopo la stesura di Synir duftsins, 'figli della polvere', del 1997, si rese conto che in effetti quel suo primo libro si adattava alla classificazione standard del thriller o della crime fiction), votato al romanzo in tempi recenti, ma in Germania ormai vende più di Dan Brown. "Non mi interessa affatto la violenza", mi assicura.
Dal punto di vista traduttivo, il testo non ha presentato alcun problema di sorta: è stato un piacere doppio lavorare a questo testo, dove al gusto per l'operazione in sé si è aggiunto quello innegabile per il caso che tratta, benché io non sia mai stata un'estimatrice del genere. Il ritmo scorre e incalza, non ci sono nodi da aggirare, nessuna difficoltà insormontabile con cui confrontarsi, se non appunto il titolo stesso: 'mýri' è un termine che in islandese significa 'palude' o 'pantano', ma costituisce anche parte del toponimo del quartiere di Reykjavík in cui viene ritrovato il corpo di Holberg: Norðurmýri, il 'pantano settentrionale' - riferimento dalle connotazioni geografiche, sociali e psicologiche che in italiano vanno perdute.
Il problema principale è invece quello della credibilità, ne abbiamo parlato con Arnaldur un pomeriggio di maggio, grigio e tiepido. È per questo che, in genere, nei suoi romanzi a morire sono quasi sempre i cattivi. Non si possono creare serial killer islandesi, né delitti efferati, né rappresentare regolari processi in cui gli imputati devono difendersi da accuse di omicidio: nessuno vi crederebbe. Le storie di Arnaldur sono profondamente islandesi, hanno a che fare con islandesi, si svolgono in Islanda e trattano argomenti attuali nella società islandese: in fondo una delle cose che più apprezzo dei suoi romanzi è proprio il fatto che sono dei veicoli culturali, una sorta di invito alla conoscenza della cultura islandese: il plusvalore, oltre a quello del thriller in sé, è dato dal fatto che si aprono sempre dei sipari su un aspetto o un periodo della storia nazionale di volta in volta diverso. E come le storie, anche i due agenti, seppure risentano delle influenze di letteratura e filmografia di genere straniere, sono la classica coppia di sbirri: Erlendur, il più anziano, è un tradizionalista con un divorzio alle spalle e i figli lontani, solitario, un po' depresso, arruffato ma gentile; l'altro, Sigurður Óli, è all'opposto una mentalità giovane e moderna, ha studiato criminologia negli Stati Uniti, è un single arrivista, il passato non gli interessa. I due sono apparentemente incompatibili, ma sono lo specchio dei due volti dell'Islanda attuale e insieme arrivano a chiudere ogni caso che si trovano a dover investigare: suicidi, clonazioni, infanticidi, frodi sulle quote ittiche, droga, furto di organi o di archivi informatici, assassini. E sebbene niente sconvolga Sigurður Óli più di tanto, ogni caso arriva l'anima di Erlendur e lo rende scorbutico e depresso. È attraverso di lui che i lettori seguono e vivono i casi. Ma svelare troppo della trama di un giallo, o peggio, di quelli che verranno, sarebbe un vero sgarbo nei confronti dei lettori; ma quello che posso dire per certo è che dopo aver letto Sotto la città, una passeggiata per le strade di Reykjavík durante una qualsiasi piovosa giornata autunnale assumerà sfumature molto più inquietanti.
Silvia Cosimini