Pensare di poter scrivere poche righe intorno all’ultimo romanzo di Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, sarebbe non soltanto risibile, ma risulterebbe perfino controproducente, soprattutto in considerazione del fatto che, nonostante siano passati centoquaranta anni dalla morte dell’autore, rimane nei lettori e nei critici il dubbio se considerarlo un letterato o un pensatore. I fratelli Karamazov “è un romanzo lungo (più di mille pagine), ed è un romanzo strano. […] Il libro è un tipico racconto poliziesco, un tumultuoso «chi-è-il-colpevole» - al rallentatore”. Però, sulla scorta di una bellissima, quanto incisiva, trasposizione teatrale di una parte del Libro Quinto, che ruota intorno al “poema” Il Grande Inquisitore, che del romanzo è certo una delle parti più emblematiche, si possono tentare qualche letteraria riflessione sparsa e qualche considerazione di carattere filosofico.
Innanzitutto, Il Grande Inquisitore a teatro. Andato in scena l’8 e il 9 gennaio all’Off/Off Theatre di Via Giulia a Roma, lo spettacolo è stato magistralmente interpretato da Daniele Salvo, Melania Giglio e Daniele Ronco, con l’ottima regia dello stesso Salvo (ma tutto è rimarchevole: dalle scene ai costumi, dalle musiche originali alle luci). Uno dei principi animatori della trasposizione de Il Grande Inquisitore è così espresso da Daniele Salvo: “Per affrontare Dostoevskij, per decodificarlo e comprenderlo dal suo interno è necessario smettere finalmente di recitare, azzerare lo stile, indagare il testo da vicino, in un confronto serrato con sé stessi ed i propri fantasmi”. E, c’è da dirlo, l’intento è stato perseguito e realizzato con forza, espressiva ed emotiva, che ha lasciato nel pubblico impressioni durature, come si è potuto constatare dal lungo applauso finale e dall’essere stati gli attori più volte richiamati sul palco, giusto riconoscimento per un lavoro svolto con evidente passione, per una ricerca dell’espressività e nella regia, a parere di chi scrive, molto moderna.
Vediamo quindi un po’ più da vicino qualcosa di questo testo, dal quale ne dissechiamo, seguendo la trasposizione teatrale, un troncone ben individuato, tralasciando del tutto i legami con il resto del monumentale romanzo, proprio per rimanere nell’interpretazione stilistica che ne ha fornito lo scenografo Alessandro Chiti, quasi a voler suggerire allo spettatore che tutto il mondo fosse in quel momento tra quelle nere pareti, all’interno delle quali si svolge l’azione. E fuori, niente. Quello stesso niente che può condurre a “cogliere nella sua compiuta articolazione il senso del nichilismo di Dostoevskij, il cui tratto saliente consiste nel venire in primo piano dell’uomo a scapito di Dio”. Il problema, però, sembra porsi per Ivan, il fratello che racconta del Grande Inquisitore, in un’altra maniera, se cioè bisogna accettare o no il mondo per accettare o no Dio. E, sia detto fin da subito, Ivan (che è seguito, ma soltanto fino a un certo punto, nel suo avvitarsi dallo stesso Dostoevskij) non può assolutamente accettare la presunta armonia del Tutto, nonostante non si voglia staccare dal «calice della vita»: “Eppure, pensa un po’, alla fine dei conti io non accetto affatto questo mondo creato da Dio, non lo accetto e anche se so che esso esiste, non lo approvo per niente. Non è che io non creda a Dio, cerca di capirmi, è il mondo che egli ha creato, il mondo di Dio che io non accetto e non posso accettare”.
Nel dialogo fra i due fratelli, che prelude al racconto di Ivan sul Grande Inquisitore, comincia a farsi strada la figura di Cristo, che sarà poi centrale nel “poema” narrato dal fratello maggiore. L’amore di Cristo per gli uomini, concretato nell’ama il prossimo tuo come te stesso, è per Ivan qualcosa di irrealizzabile: infatti, “si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile”. Tranne per quanto riguarda i bambini che però, in una sorta di gioco degli specchi, diventano proprio uno dei motivi principali per i quali non è possibile accettare il mondo, perché l’innocenza dei bambini non può essere sopraffatta dal peccato dei padri e neanche gli stessi bambini possono essere responsabili delle colpe di questi, come invece era nella tragedia antica. Questa addossata ai bambini “è una sofferenza «inutile», insensata, irredimibile. […] Questa sofferenza si rivela come uno scandalo mai archiviabile”.
Proprio da questa loppa inarchiviabile (e dopo altri interessanti scambi di battute fra i due fratelli) si diparte il “poema” Il Grande Inquisitore, che mostra ancora una volta quanto sia profonda la potenza del racconto. Come è noto, il “poema” di Ivan ha un plot piuttosto semplice: il ritorno di Gesù Cristo nella Spagna degli autodafé, quindici secoli dopo la sua ascesa al cielo. È, anzi, a ben guardare, la realizzazione di quell’elogio della stupidità che lo stesso Ivan aveva fatto poco prima, e al contempo una critica alla vuota e altezzosa intelligenza: “Quanto più stupido sei, più sei chiaro. La stupidità è breve e ingenua, mentre l’intelligenza si perde intorno all’argomento e si nasconde. L’intelletto è vile, mentre la stupidità è schietta e sincera”. Quando Cristo improvvisamente e «senza trambusto» riappare, tutto il popolo lo riconosce, senza indugi e qualche avventore gli chiede perfino, ricevendolo, un miracolo. Eppure, il popolo si è talmente assuefatto al male che quando il grande inquisitore chiede spazio e strada, immancabilmente gli vengono concessi, perché “il popolo è ammaestrato, sottomesso e ubbidiente ai suoi ordini”. Le guardie imprigionano Cristo e l’azione rapidamente cambia scena, spostandosi in una prigione che ricorda molto da vicino la locanda nella quale si sono incontrati i due fratelli (anche qui molto interessanti le scelte dello scenografo). E non può essere un caso che l’inquietante locandiera di bianco vestita diventi poi la nera tentazione di Cristo nel deserto (presenza angosciante e a tratti horror, inserita in maniera molto interessante nello spettacolo teatrale, figura molto ben recitata e cantata, in latino, da Melania Giglio).
A questo punto, manca soltanto il dialogo, che in realtà è un monologo, fra la Chiesa temporale, romana o spagnola davvero poco importa, impersonata dal grande inquisitore e la figura evangelica di Gesù Cristo. A colpire maggiormente in questo dialogo/monologo è il concetto che il ritorno di Cristo sia per la Chiesa un vero e proprio disturbo (concetto ripetuto più e più volte), sulla strada della soggiogazione delle coscienze, che si ottiene con una nuova Trinità: miracolo, mistero e autorità. Così, Cristo diventa un altro eretico da bruciare, anzi, il peggiore di tutti, perché ha osato, con la sua nuova venuta, inceppare un meccanismo che invece funziona a meraviglia. E, così, si viene a scoprire anche qual è il centro di questa digressione di Ivan: la libertà. Libertà che, in mano agli uomini che non sanno più cosa farsene, diventa soltanto un impedimento, qualcosa da lasciare amministrare a chi lo sa comprendere, “giacché solo adesso (e qui chiaramente sta parlando dell’Inquisizione) è diventato possibile pensare per la prima volta alla felicità degli uomini”.
Al di là delle interpretazioni nichilistiche del “poema” di Ivan, che qui non possono essere discusse, in conclusione possiamo chiederci se il testo di Dostoevskij sia ancora attuale e riesca a parlare all’uomo contemporaneo. Aiutati senz’altro dall’ottima trasposizione teatrale a cui abbiamo assistito, dalla restituzione dei personaggi davvero di livello da parte degli attori, la risposta è del tutto positiva e forse uno dei lati del testo medesimo che risultano ancora efficaci è proprio questa contrapposizione tra il messaggio evangelico e la Chiesa ufficiale, contrapposizione che oggi sembra passare troppo sotto silenzio, sotto la spinta di quello “spirito terribile e acuto, lo spirito dell’autodistruzione e della non-esistenza”, che allontana sempre di più l’uomo dalla libertà e dalla verità, che certo non sono eterne e che, per non diventare un enigma, dovrebbero essere continuamente esercitate, pensate e partecipate senza padroni.