Millecinquecento anni dopo la sua morte, a Siviglia, Cristo torna sulla terra. Cammina per le strade della città spagnola dove, alla presenza di tutti i cittadini, il cardinale Grande Inquisitore sta consegnando al rogo un centinaio di eretici. Il suo arrivo è silenzioso, eppure il popolo lo riconosce, lo circonda, è pronto a seguirlo. Ma in quel momento il Grande Inquisitore attraversa la piazza, si ferma a guardare la folla, incupito. Poi ordina alle sue guardie di catturare Cristo e rinchiuderlo in prigione. Nell'oscurità del carcere, il vecchio e potente ministro della Chiesa pronuncia contro il Messia un fortissimo atto d'accusa, condannandolo a morte. In questo episodio dalla dignità autonoma dei Fratelli Karamazov, Fëdor Dostoevskij afferma il proprio pensiero filosofico-religioso: la libertà dell'essere umano si basa su una fede senza dogmi e miracoli, senza gerarchie e autorità, contrapposta alla dottrina che in nome di un mandato superiore e indiscutibile sottrae agli uomini la consapevolezza di sé e il libero arbitrio. La massima sofferenza dell'uomo sta infatti in questa contraddizione, vivere diviso tra il desiderio di una tutela che lo sollevi dal tormento del decidere e l'aspirazione alla libertà individuale.
Un conflitto che coinvolge tutti i popoli, in tutte le epoche, più che mai cruciale nella modernità. Fëdor Dostoevskij è architetto di emozioni. La sua scrittura opera un vero e proprio sezionamento dell’animo umano. Lui non ha paura di affrontare le zone più oscure, i recessi più segreti, i comportamenti più sconvolgenti, le fragilità più assolute degli “uomini” che popolano le sue opere. I suoi non sono personaggi, ma “personae” in carne ed ossa, colme di contraddizioni, ansie, paure, aspirazioni, desideri, velleità, timidezze ed istinti ancestrali. Nelle sue confessioni a capofitto, sentiamo pulsare il sangue, possiamo sentire il respiro, possiamo toccare il corpo delle sue creature. Non si tratta di invenzioni letterarie, ma di vere proprie “invenzioni umane”, creazioni sconvolgenti e sconcertanti che ad ogni lettura si rinnovano e ritrovano la propria forza e vitalità in moltiplicazioni e rifrazioni infinite. La modernità di Dostoevskij è indiscutibile e tangibile in ogni opera, in ogni parola: la sua scrittura affronta i grandi dilemmi irrisolti dell’umanità, le grandi rimozioni dei nostri tempi, i destini dell’uomo. Affrontare le parole di Dostoevskij a teatro, significa obbligare l’interprete ad un lavoro serrato sull’emotività e sulla presenza: non è possibile mentire, applicare stili precostituiti o cliché recitativi.
È assolutamente necessario raggiungere temperature emotive altissime, cercare una “verità” ed una credibilità senza filtri. La scrittura di Dostoevskij induce a riflessioni profonde sul ruolo dell’Arte nella nostra società e sulla sua funzione catartica, preziosa per decodificare la realtà presente e le sue mille sfaccettature. Per usare un’espressione di Ionesco “Tutti gli uomini recitano, tranne alcuni attori”. È davvero così. Per affrontare Dostoevskij, per decodificarlo e comprenderlo dal suo interno è necessario smettere finalmente di recitare, azzerare lo stile, indagare il testo da vicino, in un confronto serrato con sé stessi ed i propri fantasmi, senza nessuna paura.